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Con sentenza n. 11046/'02 la Cassazione ha sancito il principio che la legge n. 89/'01 in materia di giudizio di equa riparazione è applicabile anche alle esecuzioni di rilascio di immobili urbani, il cui termine ragionevole finale va rapportato al momento della riconsegna dell'immobile all'avente diritto, considerandosi soggetti a riparazione anche i ritardi conseguenti ad atti legislativi o, comunque, a contenuto normativo che abbiano dato luogo ad una durata non ragionevole dei procedimenti.
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
La Corte Suprema di Cassazione
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli
Ill.mi Sigg. Magistrati:
(…omissis…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
(…omissis…)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
M. R. in F.-
proprietaria di un immobile destinato ad abitazione, situato in Roma al
.............., condotto in locazione da A. M. R. in forza di contratto in data
19 gennaio 1977 - con raccomandata del 26 giugno 1984 comunicò alla conduttrice
formale disdetta a decorrere dalla scadenza contrattuale del 14 gennaio 1985.
Poiché in quella data l'immobile non fu liberato, con atto notificato il 19
aprile 1985 la R. intimò alla R. sfratto per finita locazione e contestualmente
la convenne davanti al Pretore di Roma per la convalida.
Il giudice adito, con provvedimento del 18 giugno 1985, convalidò lo sfratto
fissando per il rilascio la data del 31 maggio 1986. Il precetto fu notificato
l'8 maggio 1986 e, permanendo la locataria nell'immobile, il 2 agosto 1986 la
R., notificò il preavviso di sfratto. Al primo accesso, tuttavia, la R. si
oppose al rilascio, che pertanto non fu eseguito. L'ufficiale giudiziario,
quindi, fece luogo negli anni a numerosi accessi, rimasti senza esito per
mancata assistenza della forza pubblica (il ricorso ne enumera 60 tra il 6
agosto 1986 e il 14 ottobre 1998: v. pag. 3). Ciò a seguito di varie
disposizioni legislative che stabilirono regole per la sospensione e la
"graduazione" nella concessione della forza pubblica allo scopo di
eseguire i provvedimenti di sfratto.
In particolare, con D.L. 29 ottobre 1986 n. 708, conv. in legge 23 dicembre 1986
n. 899, l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio fu sospesa fino al 31 marzo
1987 e la determinazione dei criteri circa l'impiego della forza pubblica fu
affidata al prefetto, previo parere di una commissione consultiva.
Con D..L. 8 febbraio 1988 n. 26, conv. in legge 8 aprile 1988 n. 108, e poi con
D.L. 30 dicembre 1988 n. 551, conv. in legge 21 febbraio 1989 n. 61, le
esecuzioni furono sospese fino al 30 aprile 1989. L'art. 3, comma 5, di detta
legge stabilì che la forza pubblica -tranne alcune eccezioni poteva essere
concessa entro un periodo non superiore a 48 mesi, con decorrenza non successiva
al primo gennaio 1990.
La R., ritenendo di trovarsi nelle condizioni per godere del previsto diritto,
di priorità, presentò apposita istanza, rimasta però senza esito (come si
afferma in ricorso).
Il sistema di sospensione - graduazione, con una serie di provvedimenti
legislativi, fu esteso dal 31 dicembre 1993 al 31 gennaio 1998.
Con legge 9 dicembre 1998 n. 431 (art. 6) le esecuzioni dei provvedimenti di
rilascio furono ancora sospese per 180 giorni, cioè fino al 29 giugno 1999.
In base a tale legge, fallite le trattative per la stipula di un nuovo
contratto, la conduttrice presentò istanza perché fosse nuovamente fissato il
giorno dell'esecuzione. La R. si oppose ma il giudice dell'esecuzione, con
decreto del 30 settembre 1999, fissò per il rilascio la data del 31 maggio
2000.
Per effetto del D.L. n. 32 del 2000, conv. in legge 20 aprile 2000 n. 97,
l'esecuzione fu differita al 30 settembre 2000. Un ulteriore accesso fissato per
il 18 ottobre 2000 rimase infruttuoso per malattia dell'ufficiale giudiziario
incaricato ed il successivo accesso del 7 novembre 2000 rimase del pari senza
esito per mancata assistenza della forza pubblica.
Infine, in data 24 novembre 2000 -con l'ausilio della forza pubblica, del medico
nominato dal giudice e di un fabbro -la proprietaria fu reimmessa nel possesso
del proprio appartamento.
Con ricorso depositato il 23 maggio 2001 M. R. si rivolse alla Corte d'appello
di Perugia, ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, affinché si accertasse la
violazione dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della
legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine
ragionevole per la durata della procedura esecutiva nei confronti della R. La
ricorrente chiese quindi che la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il
Ministero della giustizia, se del caso anche in solido, fossero condannati al
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla medesima
ricorrente per la reiterata negazione dell'assistenza della forza pubblica
nell'esecuzione dello sfratto e per la conseguente abnorme durata della
procedura esecutiva. Le amministrazioni convenute si costituirono per resistere
alla domanda. La Corte di appello di Perugia, con decreto depositato il 16
luglio 2001, rigettò il ricorso e condannò la R. al pagamento delle spese
giudiziali, considerando:
che la stessa ricorrente ascriveva l'abnorme lunghezza della procedura soltanto
ai numerosi consecutivi interventi del legislatore che avevano introdotto una
surrettizia proroga degli sfratti, stabilendo regole per la sospensione della
concessione della forza pubblica (indispensabile ausilio all'esecuzione
forzata), che veniva demandata al prefetto;
che il caso di specie non rientrava nella previsione dell'art. 2 della legge n.
89 del 2001, "limitata alle inadempienze dello Stato quale somministratore
di giurisdizione", dal cui ambito certamente esulava il potere legislativo,
autonomo e sovrano nelle sue determinazioni e del quale il prefetto - nella
vicenda esposta - aveva costituito il tramite esecutivo e non già un ausiliario
dell'A.G.O., di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001;
che il ricorso doveva trovare la sua sede naturale presso la Corte di
Strasburgo.
Contro il suddetto provvedimento M. R. ha proposto ricorso per cassazione,
affidato a due motivi illustrati con memoria.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della giustizia hanno
resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale condizionato
sulla base di due motivi, depositando quindi memoria ex art. 378 cod. proc.
civile.
Infine la R. ha proposto controricorso per resistere al detto ricorso
incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso
principale e il ricorso incidentale, proposti contro la medesima pronunzia,
devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civile.
2. Deve essere trattata con priorità, per ragioni di ordine logico, la
questione sollevata dalle amministrazioni resistenti con la memoria in data 7
giugno 2002, secondo cui il ricorso per cassazione previsto dall'art. 3, comma
sesto, della legge n. 89 del 2001 andrebbe ricondotto nell'ambito dell'art. 111
Cost. e non dell'art. 360 cod, proc. civ., con conseguente inammissibilità
dell'impugnazione nella parte in cui articola censure diverse dalla violazione
di legge.
Ancorché sollevata in memoria, la questione concerne un profilo rilevabile
anche d'ufficio. Essa, pertanto, deve essere esaminata ma si rivela priva di
fondamento.
L'art. 3 della legge n. 89 del 2001, recante disposizioni sul procedimento
diretto ad azionare il diritto all'equa riparazione di cui all'art. 2, dopo aver
dettato le modalità per la proposizione della domanda, modella il procedimento
stesso su quello previsto in via generale dagli artt. 737 e ss. cod. proc. civ.
e stabilisce che, all'esito di esso, la Corte di merito pronunzia con decreto
"impugnabile per cassazione".
L'adozione del modello camerale per il procedimento de quo è determinata dal
carattere di celerità che ispira quel modello, ritenuto dal legislatore più
agile e rapido rispetto al processo di cognizione ordinaria. La scelta in tal
senso, dunque, è stata operata come misura acceleratoria, perseguita mediante
una procedura definibile in tempi brevi. Ma il provvedimento che la conclude è
senza dubbio definitivo (non essendo previsti altri rimedi, a parte il ricorso
per cassazione) ed ha natura decisoria, essendo idoneo ad incidere con efficacia
di giudicato sull'interesse della parte all'equa riparazione, avente consistenza
di diritto soggettivo e tale espressamente qualificato dalla legge (art. 2,
primo comma, legge n. 89 del 2001). Pertanto esso, pur in assenza di previsione
normativa, sarebbe stato senz'altro suscettibile di ricorso per cassazione ai
sensi dell'art. 111 della Costituzione, in base alla costante giurisprudenza di
questa Corte (tra le più recenti, Cass., 21 maggio 2001, n. 6919; 21 febbraio
2001, n. 2517; 14 febbraio 2001, n. 2099). Ne deriva che, se si interpretasse
l'art. 3, comma sesto, della legge n. 89 del 2001 come riferito al detto ricorso
straordinario, il dettato normativo in parte qua sarebbe pleonastico, essendo
tale mezzo d'impugnazione già esperibile in relazione alla natura dell'atto.
Invece l'espressa previsione della norma, che consente il ricorso per cassazione
avverso il decreto della Corte territoriale senza alcuna limitazione in ordine
ai motivi proponibili, impone di ritenere che il legislatore abbia inteso
riferirsi al ricorso ordinario per cassazione (ex art. 360 cod. proc. civ.), in
ragione del contenuto sostanziale di sentenza che al provvedimento in questione
va riconosciuto, al di là della forma adottata.
Di qui l'infondatezza della tesi propugnata dalle amministrazioni resistenti.
3. Sempre per ragioni di ordine logico va ora esaminato il primo motivo del
ricorso incidentale delle amministrazioni resistenti.
Ancorché proposto in forma condizionata all'accoglimento del ricorso
principale, esso concerne una questione preliminare che, se accolta,
comporterebbe l'assorbimento del detto ricorso principale. E poiché, come si
dirà più avanti, questo è fondato, deve farsi luogo in via prioritaria
all'esame della questione preliminare.
Col primo motivo del ricorso incidentale il Ministero della giustizia e la
Presidenza del Consiglio denunziano violazione dell'art. 2 della legge 24 marzo
2001, n. 89, e dell'art. 2043 cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod.
proc. civile.
Sostengono che i giudici del merito avrebbero dovuto dichiarare inammissibile, o
comunque rigettare, il ricorso introduttivo perché la legge n. 89 del 2001 non
sarebbe applicabile al procedimento di esecuzione forzata di un provvedimento di
rilascio d'immobile adibito ad uso di abitazione.
In primo luogo, andrebbe contestata l'applicabilità della detta legge al
procedimento di esecuzione in generale che - essendo finalizzato non già alla
formazione di un giudicato bensì alla soddisfazione coattiva di un diritto -
sarebbe condizionato da circostanze tali da non consentire di configurare in
astratto una durata ragionevole, come avviene per il processo di cognizione, o
comunque d'imputare all'Amministrazione della giustizia la sua eventuale durata
irragionevole.
In secondo luogo, il rilascio coattivo d'immobili adibiti ad uso abitativo
sarebbe soggetto ad una disciplina speciale in cui sarebbe previsto che la
concessione della forza pubblica sia sottratta alla disponibilità dell'organo
giurisdizionale e rimessa alla valutazione discrezionale di altri organi
amministrativi.
Pertanto, il tempo occorrente per ottenere la forza pubblica non potrebbe essere
sindacato ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per i diritti
dell'uomo, in quanto non costituirebbe un ritardo della giustizia sia in senso
soggettivo, sia in senso oggettivo, essendo giustificato per legge da ragioni di
ordine pubblico.
Questa tesi non può essere condivisa.
Ai sensi dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata dal Presidente della Repubblica italiana in seguito ad
autorizzazione conferitagli dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, entrata in vigore
per l'Italia il 26 ottobre 1955 (d'ora in avanti, Convenzione), ogni persona ha
diritto alla trattazione della sua causa equamente, pubblicamente ed entro un
termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale
costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di
carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa in materia penale che gli
venga rivolta.
L'art. 13 stabilisce che ogni persona, i cui diritti e le cui libertà
riconosciuti nella Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso
effettivo davanti ad un'istanza nazionale. E l'art. 35, paragrafo l, enuncia la
regola che la Corte europea dei diritti dell'uomo (C.E.D.U.) non può essere
adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne.
L'art. 41, infine, stabilisce che, se la C.E.D.U. dichiara che vi è stata
violazione della Convenzione, e se il diritto interno della parte contraente non
permette che in modo incompleto di eliminare le conseguenze di tale violazione,
la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione "one satisfaction
equitable") alla parte lesa.
È così chiarito che il meccanismo di tutela convenzionale riveste un carattere
sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali.
Spetta in primo luogo agli Stati contraenti prevedere, nei rispettivi diritti
interni, meccanismi di ricorso effettivo (cioè concreto ed efficace), che
consentano di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione.
In questo quadro va interpretata la legge 24 marzo 2001, n. 89, che ha
introdotto nell'ordinamento italiano l'istituto dell'equa riparazione a favore
di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di
violazione della Convenzione sopra indicata, "sotto il profilo del mancato
rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo l" della
Convenzione medesima.
Tale normativa, come anche le amministrazioni resistenti affermano (memoria
illustrativa, pag. 9), persegue i seguenti obiettivi: a) dare concreta
attuazione all'impegno assunto con la Convenzione; b) approntare una riparazione
in caso di mancato rispetto dei termini ragionevoli del processo; c)apprestare
un'efficace tutela dell'ordinamento giuridico italiano, perchè spetta in primo
luogo ai singoli Stati garantire i diritti e le libertà sottoscritti con la
Convenzione. D'altro canto il dovere legale di assicurare la ragionevole durata
del processo è oggi, nell'ordinamento italiano, espresso in Costituzione (art.
111, comma 2, nel testo novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999,
n. 2).
Ai sensi dell'art. 2, comma secondo, della legge n. 89 del 2001 spetta al
giudice italiano accertare la violazione della Convenzione "sotto il
profilo del mancato rispetto del termine ragionevole", restando ovviamente
soggetto ai principi delle leggi italiane. Tra le quali, però, c'è per
l'appunto la legge ora citata che richiama non un'astratta nozione di termine
ragionevole o di ragionevole durata, bensì il "mancato rispetto del
termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione". Ciò
significa che, se i principi elaborati dalla Corte di Strasburgo non possono
avere carattere direttamente vincolante per il giudice interno, essi tuttavia
vanno tenuti ben presenti ai fini dell'interpretazione della legge n. 89 del
2001, proprio in forza del rinvio da tale legge operato all'art. 6, paragrafo 1,
della Convenzione.
Invero, un'operazione ermeneutica che si risolvesse in un'interpretazione
elusiva dei principi affermati in sede europea non soltanto si porrebbe in
contrasto con le finalità - perseguite dalla legge n. 89 del 2001 (e,
segnatamente, con l'esigenza di dare concreta attuazione all'impegno assunto con
la Convenzione), ma renderebbe vano lo scopo pratico di tale legge, costituito
dall'introduzione di un meccanismo riparatorio interno, idoneo a porre rimedio
alle conseguenze delle violazioni contemplate dalla legge medesima ed ai
riflessi che quelle violazioni i hanno avuto in sede europea.
In altre parole, se può convenirsi con la tesi secondo i cui la legge n. 89 del
2001 non ha determinato il "recepimento in blocco" nel nostro
ordinamento della giurisprudenza europea, si deve anche affermare che i principi
i elaborati da quella giurisprudenza vanno considerati nell'interpretazione
della citata legge, la quale, per assicurare concreta attuazione agli impegni
assunti con la Convenzione, va interpretata in modo da garantire una tutela
effettiva sia del termine ragionevole di durata dei procedimenti (secondo la
nozione di questi elaborata dalla Corte di Strasburgo), sia del diritto all'equa
riparazione in caso di sua violazione.
Se così è, l'assunto propugnato dalle resistenti, secondo cui la legge n.
89/2001 non si applicherebbe al procedimento esecutivo, deve essere respinto,
dovendosi invece affermare che anche quel procedimento rientra nell'ambito
applicativo della legge medesima.
Scopo della tutela giurisdizionale e del processo è rendere concreto il comando
astratto di legge, "dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un
diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire"
alla stregua della legge sostanziale (come posto in luce in dottrina). Pertanto
un sistema di tutela giurisdizionale deve provvedere non soltanto
all'accertamento di chi ha ragione e di chi ha torto, ma anche alla
soddisfazione concreta dei diritti. A tale risultato sono finalizzati i processi
di esecuzione forzata (artt. 474 e ss. cod. proc. I civ. e, quanto
all'esecuzione per consegna o rilascio, artt. 605 e ss. detto codice), che
anch'essi appartengono alla giurisdizione e sono condotti sotto la direzione o
la , vigilanza del giudice a garanzia della legittimità del loro 1 svolgimento.
E in detta prospettiva, proprio in tema di esecuzione degli sfratti, questa
Corte ha già chiarito che la concessione della forza pubblica da parte del
prefetto, su richiesta dell'ufficiale giudiziario, va intesa come di ausilio al
prvvedimento esecutivo dell'autorità giudiziaria ordinaria, vale a dire di
prestazione di mezzi per l'attuazione in concreto del diritto sancito dal titolo
esecutivo, allo scopo di dare attuazione alla funzione giurisdizionale (Cass. ,
sez. un., 26 giugno 1996, n. 5894), restando così ribadito il collegamento tra
procedimento esecutivo e momento realizzativo del diritto.
Il solo processo di cognizione, in difetto della successiva spontanea
cooperazione dell'obbligato, sarebbe insufficiente a garantire al titolare del
diritto il godimento del bene o dell'utilità prevista dalla legge sostanziale.
In tal senso, del resto, anche la giurisprudenza europea si è già espressa,
affermando che, ai fini della determinazione della ragionevole durata, si deve
accertare quando il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione (Di Pede
c. Italia, 26 settembre 1996; Scollo c. Italia, 28 settembre 1995).
I contrari argomenti addotti dalle resistenti non sono persuasivi.
Infatti:
a) che nel processo esecutivo il debitore abbia la possibilità di sottrarsi
all'esecuzione forzata e quindi di prolungare la durata del processo, o
addirittura d'impedire che esso vada a buon fine, è circostanza inesatta nei
termini generali in cui è proposta, perché il processo esecutivo è diretto
appunto a vincere le resistenze del debitore. Il comportamento di questo,
quindi, se è valutabile ai sensi dell'art. 2 (comma secondo) L. n. 89/2001, non
può certo assumere rilievo fino ad escludere l'applicabilità di tale legge al
processo esecutivo, esclusione che renderebbe in parte consistente non effettiva
la tutela prevista dalla legge medesima;
b) che il rilascio coattivo d'immobili adibiti ad uso abitativo sia soggetto ad
una disciplina speciale, che lo renderebbe non sindacabile ai sensi dell'art. 6,
par. 1, della Convenzione, è. questione che sarà trattata, nell'esame del
ricorso principale, perchè non riguarda il processo esecutivo in sé, bensì i
limiti delle violazioni accertabili nel quadro delle violazioni contemplate
dall'art. 2 della legge n. 89;
c) il richiamo all'art. 4 di tale legge non è pertinente. È vero che la norma
ora citata stabilisce che la domanda di riparazione va proposta, a pena di
decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il
procedimento, è divenuta definitiva. Ma il concetto di "decisione
definitiva" (espressione non a caso analoga a quella di "decisioni
interne definitive", che si trova nell'art. 35, paragrafo 1, della
Convenzione) non coincide con quello di sentenza passata in giudicato (ben noto
al nostro ordinamento, sicché il legislatore l'avrebbe adottato se ad esso
avesse inteso riferirsi), bensì indica il momento in cui il diritto azionato ha
trovato effettiva realizzazione. E tale momento, nell'esecuzione per il rilascio
di un immobile, è quello della riconsegna del bene all'avente diritto, quando
cioè la controversia rilevante ai fini della durata ragionevole del
procedimento perviene a definizione.
Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono, primo motivo
del ricorso incidentale deve essere respinto.
4. Con il primo mezzo di cassazione la ricorrente principale denunzia violazione
e falsa applicazione dell'art. 2, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89 in
rel. all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. e all'art. 6, par. primo, della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché
violazione degli artt. 474, 475 e 513 cod. proc. civ. e delle disposizioni dei
D.L. n. 551 del 1988 e n. 172 del 1997.
Richiamato il tenore dell'art. 2 della citata legge n. 89/2001, ella sostiene
che, stante l'ampia formula adottata dal legislatore, il caso in esame
rientrerebbe nell'ambito applicativo di detta norma, sia perché la legge de qua
appresterebbe uno strumento per accertare la responsabilità dello Stato
italiano in ordine alla violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione, sotto
il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo, sia perché
il prefetto andrebbe annoverato tra le altre autorità che concorrono, o
comunque contribuiscono, alla definizione del procedimento esecutivo, il cui
comportamento andrebbe valutato allo scopo di accertare la violazione della
norma di diritto internazionale. La ricorrente pone quindi l'accento sulle
finalità perseguite dalla legge n. 89/2001, sul contesto nel quale : essa fu
approvata e sulle decisioni assunte dalla C.E.D.U., ed afferma che
l'interpretazione della nuova normativa dovrebbe garantire l'effettività del
rimedio previsto, assicurando che esso fornisca in concreto un'adeguata tutela,
avuto riguardo alla natura sussidiaria che, in base alla Convenzione, il reclamo
alla Corte europea riveste rispetto ai sistemi nazionali di protezione dei
diritti umani : (artt. 13 e 35, par. 1, della Convenzione).
La R. rileva, poi, che, ai sensi degli artt. 474 e 475 cod. proc. civ.,
l'esecuzione forzata potrebbe aver luogo soltanto in virtù di un titolo
esecutivo, alla cui attuazione dovrebbero concorrere gli organi previsti dalla
legge, tra cui i prefetti, rientranti nella previsione normativa quali autorità
che concorrono o collaborano all'esecuzione mediante i poteri loro conferiti in
tema di graduazione degli sfratti e concessione della forza pubblica.
Richiamate la legislazione in materia e la sentenza della Corte costituzionale
24 luglio 1998, n. 321, la ricorrente sostiene che l'adesione ai suddetti
orientamenti dovrebbe far concludere per la fondatezza della proposta
impugnazione.
Con il secondo mezzo di cassazione la R. censura il provvedimento impugnato
nella parte in cui ha ritenuto che ella avrebbe addebitato l'abnorme lunghezza
della procedura esclusivamente agli interventi legislativi. Afferma di avere
insistito sui menzionati interventi perché essi, nel disporre le sospensioni,
dettavano anche la disciplina dei poteri prefettizi, e pone in rilievo di aver
criticato il comportamento inerte del prefetto di Roma che, nell'esercizio del
potere di graduare gli sfratti decidendo sulla concessione della forza pubblica,
non avrebbe posto in essere gli atti dovuti, nell'ambito delle ,
"finestre" che la legislazione richiamata avrebbe aperto per
consentire che alcuni sfratti, comunque, fossero eseguiti.
Sul punto la Corte territoriale avrebbe motivato in modo del tutto
insufficiente, omettendo ogni riferimento alle specifiche doglianze formulate.
Le suddette censure, da esaminare congiuntamente perché tra loro connesse, sono
fondate nei sensi in prosieguo indicati.
Richiamate le considerazioni svolte nel precedente punto tre, si deve in primo
luogo osservare che l'art. 2 della legge n. 89 del 2001 (costituente il
parametro normativo di riferimento) prevede non un diritto al risarcimento del
danno bensì un diritto all'equa riparazione, in coerenza del resto con il
disposto dell'art. 41 della Convenzione. Si tratta, cioè, di un diritto a
contenuto indennitario e non risarcitorio, come si evince, già sul piano
testuale, dai richiami all'equità e al limite delle risorse disponibili,
dall'assenza di riferimenti all'elemento soggettivo della responsabilità,
dall'adozione del termine "indennizzo" (art. 3, comma 7 n. 89/2001).
Questo orientamento trova conferma, sul piano logico - sistematico, nel rilievo
che la violazione della Convenzione sotto il profilo del mancato rispetto del
termine ragionevole non richiede l'accertamento di un illecito secondo la
nozione contemplata dall'art. 2043 cod. civile. È ben possibile che la durata
irragionevole del procedimento sia imputabile a colpa di un soggetto individuato
o individuabile (comportamento del giudice del procedimento e di ogni altra
autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla sua definizione), ed a
tale è previsto (art. 5 della legge) che il decreto di accoglimento della
domanda sia comunicato, a cura della cancelleria, anche , al procuratore
generale della Corte dei conti ed ai titolari dell'azione disciplinare dei
dipendenti pubblici comunque interessati al procedimento. Ma nello schema
normativo de quo il riconoscimento dell'equa riparazione non presuppone
necessariamente la verifica dell'elemento soggettivo a carico di un agente,
essendo invece ancorato all'accertamento di una violazione della Convenzione,
cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del
suo procedimento in una durata ragionevole.
In altre parole, quella avente ad oggetto l'equa riparazione per la non
ragionevole durata del processo non si configura come obbligazione ex delicto,
ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 cod. civ., ad
ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità
dell'ordinamento giuridico.
A diversa conclusione non può condurne il rinvio, contenuto nell'art. 2 comma
30 della legge n. 89, all'art. 2056 cod. civ., perché tale rinvio rileva
soltanto ai fini della determinazione del quantum della riparazione, ma non
incide sulla natura indennitaria di questa.
Fatto costitutivo del diritto all'equa riparazione è il "mancato rispetto
del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione". Il
termine è riferito, dunque, in modo specifico a quello contemplato dall'art. 6,
par. 1, della Convenzione, sicché detta norma, e il diritto vivente che intorno
ad essa si è formato attraverso la giurisprudenza della Corte europea,
necessariamente vanno considerati ai fini dell'interpretazione della legge n. 89
del 2001.
In questo quadro, dunque, deve essere, letto l'art. 2, secondo comma, della
legge n. 89 del 2001, alla stregua del quale il giudice, nell'accertare la
violazione, considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il
comportamento delle parti e del giudice del procedimento, "nonché quello
di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua
definizione".
Fermo il punto che il richiamo è al comportamento, cioè ad un dato oggettivo,
si deve subito notare che già il dettato letterale della norma, nella sua ampia
formulazione, non consente di attribuire ad essa il significato restrittivo
identificato dalla Corte trentina, secondo la quale il legislatore avrebbe
inteso riferirsi agli ausiliari del giudice o ad altre autorità amministrative.
Ma, al di là del dato testuale, non si può ignorare il contesto nel quale la
legge n. 89 del 2001 è stata emanata. Questa è stata introdotta
nell'ordinamento interno per dotare l'Italia di un rimedio contro la violazione
del diritto alla ragionevole durata del processo, secondo gli orientamenti
emersi in sede europea (non altro significato potendosi attribuire all'univoco
richiamo all'art. 6, par. 1, della Convenzione). Pertanto, un'interpretazione
della norma che escludesse dal suo ambito applicativo tutte le violazioni
"di sistema", cioè le violazioni conseguenti anche a scelte
legislative che provochino una durata non ragionevole dei procedimenti (nel caso
di specie, la stessa Corte di merito ipotizza gli estremi per un ricorso
"presso l'Alta Corte di Strasburgo"), finirebbe non soltanto per
porsi, a sua volta, in contrasto con la Convenzione, ma sarebbe altresì elusiva
delle stesse finalità perseguite dal legislatore.
Non si tratta d'introdurre nel nostro ordinamento la responsabilità civile del
legislatore, perché, come sopra si è notato, la legge n. 89 del 2001 non
contempla una fattispecie d'illecito aquiliano bensì un'ipotesi di natura
indennitaria. E neppure si tratta di mettere in discussione la soggezione del
giudice alla legge, essendo ovvio che il giudice deve applicare in ogni caso la
legge, ancorché ciò conduca a risultati non compatibili con la ragionevole
durata del procedimento (salvo il potere di chiedere al giudice delle leggi lo
scrutinio di costituzionalità, ai sensi dell'art. 111, comma secondo, Cost.,
nel testo novellato). Il giudice nazionale resta vincolato al quadro normativo
del proprio ordinamento, che non può disapplicare né censurare. Ma proprio in
ossequio a tali principi ha il dovere d'interpretare la legge n. 89 del 2001
(che è legge dello Stato) in base al senso "fatto palese dal significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore" (art. 12, primo comma, disp. sulla legge in generale). E tale
interpretazione, alla stregua dei precedenti rilievi conduce ad affermare che,
nell'accertare la durata del procedimento al fine di verificarne la
ragionevolezza, il giudice debba considerare anche il ritardo conseguente alla
(doverosa) applicazione di atti legislativi o, comunque, a contenuto normativo.
Il detto accertamento, infatti, non è diretto a sindacare tali atti, e le
scelte ad essi sottese (e men che mai a disapplicarli) , bensì a controllare se
la durata del singolo procedimento (come conformato in base a quegli atti) si
riveli compatibile con i principi della legge n. 89 del 2001, segnatamente con
il precetto di cui all'art. 2 di tale legge e, tramite questo, con il precetto
di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione.
Il provvedimento impugnato, dunque, ha errato nell'affermare che dall'ambito
applicativo della legge n. 89 del 2001 andasse esclusa l'incidenza sulla durata
del procedimento riferibile ad atti normativi o applicativi di questi.
Esso, pertanto, in accoglimento del ricorso principale deve essere cassato
(restando assorbita in tale pronuncia la doglianza relativa al comportamento
asseritamente omissivo del prefetto, da verificare nella successiva fase di
merito) e la causa va rinviata alla Corte di appello di Perugia - funzionalmente
competente ex art. 3, comma 1, L. n.89 del 2001 - in diversa composizione, che
procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi sopra
enunciati, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Infatti, non ricorrono gli estremi per far luogo alla pronunzia nel merito
richiesta dalla ricorrente (capi 7 e ss. del ricorso per cassazione) , essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto non compatibili con la presente sede
di legittimità (art. 384, primo comma, cod. proc. civ.).
5. Occorre ora procedere all'esame del secondo motivo del ricorso incidentale.
Con esso le resistenti, denunciando violazione dell'art. 3 (terzo comma) della
legge n. 89 del 2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., censurano
il decreto impugnato nella parte in cui è stato reso anche nei confronti della
Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostengono che la Presidenza del
Consiglio sarebbe estranea alla vicenda in esame, in quanto avrebbe una
legittimazione residuale, circoscritta dal citato art. 3 agli "altri
casi", diversi da quelli concernenti giudizi ordinari, militari o
tributari. Secondo le resistenti la norma sarebbe da riferire ai giudizi
contabili o amministrativi, mentre nella fatti specie si discuterebbe di un
ordinario processo di esecuzione forzata, per il quale risponderebbe il solo
Ministero della Giustizia.
Il motivo non ha fondamento.
L'art. 3, comma 3., della legge n. 89 del 2001 dispone che il ricorso è
proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di
procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta
di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si
tratta di procedimenti del giudice tributario. Aggiunge poi che "negli
altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei
ministri".
Essendo questo il tenore normativo, la tesi restrittiva delle amministrazioni
resistenti (che vorrebbero circoscrivere la legittimazione della Presidenza ai
casi di giudizi contabili o amministrativi) non può essere condivisa perché
non trova alcuna base nella legge che, se avesse voluto una simile limitazione,
l'avrebbe prevista in modo espresso. Invece la disposizione recata dal citato
art. 3 va collegata all'ampia formula dell'art. 2, comma 2, della legge n. 89
del 2001, secondo cui il giudice, nell'accertare la violazione, considera (tra
l'altro) il comportamento di ogni altra autorità chiamata a concorrere o a
contribuire alla definizione del procedimento. Nel caso in esame sono addotte
(anche) violazioni "di sistema", nel significato sopra indicato, in
relazione alle quali la legittimazione va riconosciuta alla Presidenza del
Consiglio proprio in forza della previsione c.d. "residuale" recata
dall'art. 3, comma 3, della legge n. 89/2001.
Ne segue che anche il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere
respinto.
P.Q.M.
La Corte riunisce
i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa
il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di appello di Perugia, in diversa
composizione.
Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2002.