Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 17 maggio 2004, n. 23016
Le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell'illegittimità costituzionale di norme, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione. In tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell'art. 101, comma 2, Cost. purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto.
RITENUTO IN FATTO
In data 4
agosto 2003 Pezzella Francesco presentava al Tribunale di Napoli, nel corso del
dibattimento a suo carico, richiesta di scarcerazione per avvenuto decorso del
doppio del termine di fase, previsto dall'art. 304, comma 6, c.p.p., deducendo
che: 1) in data 23 gennaio 1999 era stato sottoposto alla misura cautelare della
custodia in carcere per i delitti di cui agli artt. 416-bis c.p., 110 e 629,
comma 1 e 2, c.p., aggravati dalla circostanza di cui all'art. 7 della l.
203/1991, e 12, 14 della l. 497/1974; 2) il 9 novembre 2000, all'esito
dell'udienza preliminare, era stato rinviato a giudizio; 3) in data 14 marzo
2001 il Tribunale dibattimentale aveva dichiarato la nullità del decreto che
aveva disposto il giudizio, con conseguente regressione del procedimento alla
fase delle indagini preliminari; 4) il 17 ottobre 2001 era stato emesso nuovo
decreto di rinvio a giudizio. Ciò premesso, l'istante assumeva che, alla data
della richiesta di scarcerazione, era ormai trascorso il termine massimo di
durata della custodia cautelare per il giudizio di primo grado, la cui scadenza
era avvenuta il 24 novembre 2002, dopo tre anni dall'applicazione della misura.
Il Tribunale di Napoli, quale giudice del dibattimento, il 9 settembre 2003
respingeva la richiesta di scarcerazione, ritenendo che non fosse decorso il
termine triennale, la cui durata doveva essere computata a partire dal primo
decreto di rinvio a giudizio.
Investito dell'impugnazione cautelare ex art. 310 c.p.p., il Tribunale della
libertà, con ordinanza del 2 settembre 2003, rigettava l'appello, precisando
che, secondo la sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale
292/1998, per il computo del doppio del termine di fase la custodia cautelare
patita nella fase dibattimentale, prima del regresso, doveva essere sommata, in
base ad una "fictio iuris" alla fase delle indagini preliminari e non,
invece, alla durata del secondo dibattimento, validamente e definitivamente
instauratosi. Pertanto, il Tribunale riteneva che, in applicazione delle linee
della giurisprudenza costituzionale, la data di decorrenza del termine massimo
relativo al giudizio di primo grado dovesse essere identificata, ai sensi
dell'art. 303, comma 1, lettera b) c.p.p., in quella del 17 ottobre 2001, in cui
era stato emesso il secondo decreto che aveva disposto il giudizio, e non già
nella data del primo decreto, come aveva erroneamente ritenuto il giudice del
procedimento principale col provvedimento di rigetto dell'istanza di
scarcerazione, né in quella di inizio della custodia cautelare, come aveva
sostenuto l'appellante. Una diversa soluzione - aveva concluso il Tribunale -
avrebbe condotto «all'aberrante conclusione secondo cui il tempo trascorso
dall'esecuzione della misura e fino alla data di emissione del nuovo decreto che
dispone il giudizio sarebbe computato due volte, sia in relazione alla fase
delle indagini preliminari, sia in relazione alla fase successiva».
Avverso l'anzidetta ordinanza il difensore ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo violazione dell'art. 606, comma 1, lettere c) ed e), in relazione al
combinato disposto degli artt. 303, comma 1, lettera b), e 304, comma 6, c.p.p.,
sull'assunto che l'esatta ricostruzione della portata della citata sentenza
292/1998 giustifica la conclusione che il limite massimo previsto per la fase
dibattimentale, era iniziato a decorrere dalla data di esecuzione della custodia
cautelare (cioè dal 24 novembre 1999, con scadenza al 24 novembre 2002); sicché
l'opinione contraria doveva considerarsi basata sull'errata premessa
dell'autonomia dei termini di fase, e quindi sulla non cumulabilità dei periodi
di custodia relativi a fasi e gradi diversi, traducendosi in un'opzione difforme
dall'interpretazione della Corte costituzionale. Di conseguenza, ad avviso del
ricorrente (che, con successiva memoria difensiva, ha ribadito le linee del
dissenso), il Tribunale, col limitare l'operatività dell'art. 304, comma 6, al
cumulo delle soli fasi omogenee, aveva fatto ricadere sulla libertà personale
dell'imputato gli effetti negativi di quegli errori od inconvenienti
verificatisi nella gestione del processo, che costituiscono causa di nullità e
determinano la regressione del procedimento.
Con ordinanza del 22 gennaio 2004, la Seconda sezione di questa Corte ha rimesso
la questione alle Sezioni Unite, rilevando che il quesito relativo alle modalità
di computo del termine massimo di fase in ipotesi di regressione del
procedimento era stato oggetto di contrasto interpretativo nella giurisprudenza
di legittimità, sinora rimasto irrisolto. Il Collegio rimettente ha osservato
che la soluzione del contrasto riveste effettiva e concreta rilevanza, posto che
la durata della custodia cautelare subita dal Pezzella avrebbe già superato il
doppio del termine interfasico relativo al giudizio di primo grado, se la
decorrenza fosse fissata alla data del primo decreto di rinvio a giudizio,
mentre, qualora dovesse seguirsi l'orientamento che ammette la possibilità di
cumulo dei periodi di fase omogenea, il termine ad quem dovrebbe individuarsi
nel 14 marzo 2004 (facendosi cioè decorrere i tre anni dal secondo decreto, ma
tenendo conto del periodo intercorrente tra il primo decreto e il provvedimento
in data 14 marzo 2001 che ne ha dichiarato la nullità); infine, se si dovesse
seguire la tesi accolta nell'ordinanza impugnata, la decorrenza del termine
massimo coinciderebbe con la data del secondo decreto di rinvio a giudizio e la
scadenza avverrebbe soltanto il 17 ottobre 2004.
Con provvedimento del 9 febbraio 2004, il Primo Presidente ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite e ne ha fissato la trattazione all'odierna udienza in
camera di consiglio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le
Sezioni Unite sono chiamate nuovamente a risolvere la questione relativa alle
modalità di calcolo del doppio del termine di fase in caso di regresso del
procedimento, già decisa con la sentenza 19 gennaio 2000, ric. Musitano, con la
quale è stato enunciato il principio di diritto per cui, al fine di accertare
se sia stato o non superato il limite della custodia cautelare fissato dall'art.
304, comma 6, c.p.p., devono sommarsi soltanto i periodi di detenzione trascorsi
in fasi o gradi omogenei, senza tenere conto del grado intermedio in cui è
stato adottato il provvedimento che ha determinato il regresso.
Nel presente procedimento cautelare il tema è stato prospettato sotto il
particolare profilo dell'individuazione della data di decorrenza del limite
temporale massimo di fase. Pur muovendo dalla identica concezione del termine
finale ex art. 304, comma 6, c.p.p. e dalla comune accettazione della sua natura
"interfasica" o "plurifasica", l'opinione del ricorrente e
quella del giudice dell'appello cautelare si presentano nettamente differenziate
in ordine alla determinazione del "dies a quo", dal momento che mentre
il difensore del Pezzella ha sostenuto che il termine inizia a decorrere dal
giorno di esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere,
nell'ordinanza impugnata è stato, invece, ritenuto che il doppio del termine
debba essere computato dalla data del secondo provvedimento di rinvio a
giudizio, col quale, dopo il regresso del procedimento, si è conclusa la fase
delle nuove indagini preliminari. La difformità e l'incertezza di opinioni sono
accresciute dall'esistenza di una terza soluzione, seguita dal Tribunale quale
giudice della cognizione, che ha rigettato la richiesta di scarcerazione
fissando la decorrenza del termine dal giorno in cui è stato emesso il primo
decreto di rinvio a giudizio, ossia da una data che, pur essendo anteriore alla
regressione del procedimento, è successiva a quella di applicazione della
misura limitativa della libertà personale.
Il problema della identificazione della decorrenza del, doppio del termine di
fase rappresenta, però, un punto meramente consequenziale rispetto alla
definizione della questione principale vertente sull'operatività dell'art. 304,
comma 6, c.p.p. e sul sistema di computo di detto termine, di talché la vera
ragione per la quale il ricorso è tornato al vaglio delle Sezioni Unite è
quella di stabilire «se, in caso di regresso del procedimento, ai fini del
computo del doppio del termine di fase e del conseguente diritto alla
scarcerazione dell'imputato detenuto, si debba tenere conto anche di periodi di
detenzione imputabili ad altra fase o grado del procedimento medesimo».
La necessità di un'approfondita riflessione sulla complessa e delicata
questione nasce dall'esigenza di valutare, senza aprioristiche posizioni, i
numerosi contributi, anche critici, della dottrina e della giurisprudenza, nella
doverosa ponderazione dei contenuti delle numerose pronunce emesse
sull'argomento dalla Corte costituzionale.
2. Da circa sei anni il tema ha formato oggetto di un nutrito dibattito, i cui
approdi interpretativi risultano largamente dissonanti e rivelano una profonda
disparità di vedute sul modo di concepire il ruolo del termine di cui all'art.
304, comma 6, all'interno del vigente sistema cautelare e sulla reciproca
interazione tra le norme che lo compongono.
È utile ricostruire i passaggi salienti della vicenda prendendo le mosse
dall'esame dell'art. 303, comma 2, c.p.p., che disciplina, appunto, l'ipotesi
della regressione del procedimento, stabilendo che «dalla data del
provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia cautelare decorrono di nuovo i termini previsti dal
comma 1 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento».
Sin dall'entrata in vigore del codice, in dottrina e in giurisprudenza mai è
stato posto in dubbio che tale disposizione ha la specifica funzione di far
derivare dal provvedimento di annullamento o di regresso il decorso di un nuovo
termine, privo di qualsiasi connessione con quello della fase o del grado
corrispondente, e, dunque, a questo non cumulabile. Secondo la communis opinio,
nel disegno del legislatore delegato la regola della nuova decorrenza dei
termini di custodia cautelare in tutti i casi di regressione o di rinvio del
procedimento ad altro giudice è concepita come assoluto sbarramento e come
totale isolamento della singola fase o grado, ciascuno di essi soggetto ad un
distinto ed autonomo termine, sulla cui ampiezza non rilevano né la durata
della custodia cautelare nelle precedenti fasi né le sospensioni in esse
eventualmente intervenute, dovendo questi periodi cumularsi unicamente ai fini
della durata massima complessiva stabilita dall'art. 303, comma 4. Inoltre, è
sempre esistita totale concordanza sul punto che la regola dettata dall'art.
303, comma 2, costituisce piena esplicazione del principio di autonomia dei
singoli termini di fase, in puntuale correlazione con la direttiva di cui
all'art. 2 n. 61 della legge-delega, in cui è contenuta la «previsione, per
ciascuna fase processuale, di termini autonomi di durata massima delle misure di
coercizione». In piena sintonia con la predetta direttiva nella Relazione al
progetto preliminare risulta specificato che «in coerenza con questa scelta di
segmentazione dei termini massimi di custodia, è stato altresì previsto
(sempre in armonia con la legislazione vigente) che, nel caso di regresso del
procedimento ad una diversa fase o di rinvio ad un diverso giudice, dalla data
del relativo provvedimento, ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia,
decorrano nuovamente i termini stabiliti dal comma 1, in relazione a ciascun
stato e grado del procedimento» (p. 76).
L'orizzonte interpretativo, contraddistinto da assoluta uniformità di
posizioni, è stato profondamente modificato dalla sentenza della Corte
costituzionale 292/1998, con cui è stata dichiarata non fondata, "nei
sensi di cui in motivazione", la questione di legittimità costituzionale,
in riferimento all'art. 3 Cost., dell'art. 303, comma quarto, nella parte in cui
non prevede che, in caso di regressione del procedimento, possa essere causa di
scarcerazione, oltre al termine complessivo di durata massima della custodia
cautelare, anche il superamento del doppio del termine di fase.
La ratio decidendi della sentenza interpretativa di rigetto è racchiusa nella
proposizione secondo cui l'art. 304, comma 6, c.p.p. sancisce un limite finale
che non opera solo per i casi di sospensione (come potrebbe fare pensare la
collocazione della disposizione), ma si estende anche all'ipotesi, regolata
dall'art. 303, comma 2, in cui il termine di fase sia iniziato a decorrere
nuovamente a seguito della regressione del procedimento. Nella decisione
interpretativa in esame, la mutata dimensione del sesto comma dell'art. 304 è
stata giustificata con il richiamo all'inquadramento storico e sistematico
dell'evoluzione della disciplina dei termini di custodia cautelare, a partire
dall'art. 272 del codice abrogato fino alla l. 332/1995, e ad argomenti testuali
e logico-sistematici, che rivelano come tale conclusione sia «l'unica soluzione
ermeneutica enucleabile dal sistema e che si appalesa in linea con i valori
della Carta fondamentale», rappresentando una evidente attuazione del canone di
proporzionalità, che reclama l'operatività di un «limite estremo, superato il
quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere sproporzionato in
quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema».
A fronte di tali nuove coordinate - confermate con l'ordinanza 429/1999 con cui
è stata dichiarata la manifesta infondatezza di analoghe questioni sollevate
con ben otto ordinanze di giudici di merito che dissentivano
dall'interpretazione offerta dalla sentenza 292/1998 - la giurisprudenza di
questa Corte, pur aderendo all'interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 304, comma 6, c.p.p., si è divisa sul problema delle modalità di
calcolo del termine di fase finale in caso di regressione del procedimento, dal
momento che mentre alcune pronunce hanno ritenuto che, a tali fini, dovessero
sommarsi solo i periodi di carcerazione subita in fasi omogenee e non anche
quelli relativi alle fasi intermedie, altre pronunce, invece, hanno seguito
un'opzione interpretativa favorevole al computo dell'intero periodo di
carcerazione cautelare, ancorché riferito a fasi o gradi differenti e non
omogenei.
Proprio per definire tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite con la
citata sentenza Musitano, la cui motivazione si sviluppa attraverso i seguenti
passaggi logico-giuridici:
a) nel condividere l'interpretazione adeguatrice della sentenza 292/1998,
secondo cui, anche in ipotesi di regressione, la disposizione di cui all'art.
304, comma 6, costituisce norma autonoma e di chiusura dell'intero sistema
cautelare, si è, anzitutto, rilevato che nel testo della menzionata pronuncia
non è contenuta alcuna indicazione sulle modalità di computo del termine
finale di fase;
b) in conseguenza dell'ampliato ambito di operatività della predetta norma, che
ha assunto rilievo autonomo e non circoscritto alla disciplina della sospensione
dei termini di custodia cautelare, «l'effettività della garanzia inerente al
termine finale di fase postula un affievolimento del rigore del meccanismo della
decorrenza "ex novo", stabilito dall'art. 303, comma 2, c.p.p., nel
senso che, limitatamente al calcolo del termine finale di fase, il provvedimento
di annullamento con rinvio o di regresso non può più avere l'effetto di
assoluta sterilizzazione di tutti i periodi di carcerazione e di tutte le
sospensioni intervenute nelle precedenti fasi»;
c) tuttavia, la persistente vigenza dell'art. 303, comma 2, la cui sfera
applicativa è stata ridimensionata ma non dissolta dalla sentenza
interpretativa, e i principi fondamentali del sistema cautelare, normativamente
strutturato sulla sola distinzione tra termini di fase autonomi (art. 303, comma
1) e termine complessivo (art. 303, comma 4), portano univocamente ad escludere
la possibilità di configurare un terzo termine finale "plurifasico",
risultante dal cumulo e dalla combinazione indiscriminata di fasi e gradi
diversi ed eterogenei, compreso quello intermedio in cui è stato adottato il
provvedimento che ha determinato il regresso del procedimento;
d) di conseguenza, con riguardo all'ipotesi dell'annullamento con rinvio
pronunciato dalla Corte di cassazione, la sola conclusione aderente
all'interpretazione adeguatrice della normativa risultante dal combinato
disposto degli artt. 304, comma 6, e 303, comma 2, del codice è quella che
consente l'unificazione della durata della custodia cautelare sofferta in
segmenti processuali omogenei, poiché essi risultano avvinti da una relazione
di corrispondenza e di successione funzionale, tanto che il grado successivo può
considerarsi come ripristino del primo, mentre resta intatta l'autonomia del
grado intermedio, conclusosi con la pronuncia di annullamento.
La successiva giurisprudenza di legittimità e quella di merito hanno condiviso
le linee della sentenza Musitano, ad eccezione di talune isolate pronunce di
questa Corte, mentre il Giudice delle leggi ha continuato a dichiarare
manifestamente infondati o manifestamente inammissibili i numerosi incidenti di
legittimità costituzionale promossi in base alla premessa interpretativa
secondo cui l'art. 303, comma 2, c.p.p. non consente l'adesione
all'interpretazione accolta nella sentenza 292/1998. Peraltro, in una delle
tante ordinanze della Corte costituzionale è stato esplicitamente giudicato
erroneo il principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Musitano ed
è stato negato che il termine previsto dall'art. 304, comma 6, possa essere
calcolato sommando la durata delle sole fasi omogenee (ordinanza 529/2000).
Al fine di superare il conflitto interpretativo e la situazione di incertezza
derivatane, le Sezioni Unite di questa Corte, con l'ordinanza del 10 luglio
2002, ric. D'Agostino, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 303, comma 2, c.p.p. «nella parte in cui impedisce di computare, ai
fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i
periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in
cui il procedimento è regredito».
Con tale provvedimento, le Sezioni Unite hanno richiamato la soluzione
ermeneutica della sentenza Musitano, rilevando che l'interpretazione accolta
nell'occasione (computo delle sole fasi omogenee) è da ritenere
costituzionalmente adeguata alle norme fondamentali di cui agli artt. 3 e 13
Cost., dalle quali devono trarsi i principi di proporzionalità e del minor
sacrificio possibile. Si è argomentato, mi particolare, che una più estesa
dimensione del termine ex art. - 304, comma 6, tale da ricomprendere anche la
durata della custodia cautelare subita in fasi o gradi eterogenei, trova un
ostacolo invalicabile nell'art. 303, comma 2, la cui perdurante presenza
nell'ordinamento comporta la decorrenza ex novo dei termini di fase in caso di
regressione del procedimento e impedisce di addizionare periodi di detenzione
sofferti in fasi o in gradi non omogenei. Di talché il risultato interpretativo
indicato nella sentenza 292/1998, nella portata esplicitamente assunta con le
successive ordinanze della Corte costituzionale, non è conseguibile se non
dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 303, comma 2, ed
eliminando, così questa disposizione dal sistema normativo che regola le misure
cautelari personali.
Con ordinanza 243/2003, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle
Sezioni Unite, ribadendo che la propria precedente interpretazione è
costituzionalmente vincolata e precisando che non può essere ammesso «un
simile approccio alla giustizia costituzionale ove si consideri che l'ordinanza
delle Sezioni Unite, oltre ad apparire perplessa (in una motivazione tutta
protesa, nella sostanza, a dimostrare l'infondatezza della questione, il
denunciato contrasto si riduce ad un laconico "forse"), si chiude con
l'esplicito invito al "rispetto delle reciproche attribuzioni", come
se a questa Corte fosse consentito affermare i principi costituzionali soltanto
attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce,
interpretare le leggi alla luce della Costituzione».
Identiche dichiarazioni di manifesta inammissibilità sono contenute nelle
successive ordinanze 335/2003 e 59/2004, pronunciate dalla Corte costituzionale
sulla medesima questione sollevata da giudici di merito.
3. Sul contrasto attualmente riscontrabile tra le posizioni della Corte
costituzionale e quelle della Corte di cassazione mette conto osservare che le
possibilità di conflitto sono connaturate alle scelte di fondo sottese
all'ordinamento costituzionale e al modo in cui questo ha configurato i due
distinti ordini di attribuzioni, seguendo un disegno nel quale l'ambito delle
funzioni attribuite agli organi investiti di potestà giurisdizionale è
connotato dall'inderogabile dovere di non abdicare all'autonomia e
all'indipendenza delle quali sono direttamente investiti dalla Costituzione. Le
interferenze e la possibile divergenza di decisioni sono ben spiegabili quando
si tengano presenti la coesistenza e l'immanenza, nelle rispettive sfere di
attribuzioni, del potere di interpretazione della legge, riconosciuto dalla
Carta fondamentale ad entrambe le Corti: alla Corte costituzionale, quale organo
costituzionale deputato al sindacato di costituzionalità delle leggi e degli
atti aventi forza di legge (art. 134 Cost.), e alla Corte di cassazione, non
solo per la sua posizione di giudice "soggetto soltanto alla legge"
(art. 101, comma 2, Cost.), ma anche per quella di giudice che, quale
"organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme
interpretazione della legge" (art. 65, comma 1, ordinamento giudiziario).
La Corte costituzionale è titolare, infatti, del potere di «interpretare con
autonomia di giudizio e di orientamenti e la norma costituzionale che si assume
violata e la norma impugnata che si accusi di violazione» (sentenza 3/1956),
onde «quale sia il contenuto della norma impugnata è inderogabile presupposto
del giudizio di legittimità costituzionale» e la Corte, anche quando si avvale
di una precedente interpretazione giurisprudenziale, lo fa a condizione che «a
seguito di una piena adesione, questa sia divenuta anche la interpretazione
propria» (sentenza 11/1965). E, d'altra parte, che la Corte costituzionale sia
titolare di un autonomo ed insindacabile potere-dovere di interpretazione delle
leggi non è in alcun modo contestabile se si pensa che, in caso contrario,
dovrebbe dichiararsi incostituzionale ogni norma impugnata per il solo fatto che
il giudice a quo ne abbia ricostruito il contenuto precettivo in modo non
conforme alla Costituzione.
L'autonomia e l'indipendenza del giudice nell'interpretazione della legge sono
presidiate, a loro volta, dalla garanzia apprestata dalla specifica previsione
dell'art. 101, comma 2, Cost., dalla quale direttamente deriva la rigida tutela
di un tale potere da possibili interferenze e condizionamenti esterni. Per
quanto riguarda la Corte di cassazione, la posizione di indipendenza è
accompagnata dal riconoscimento del "ruolo di supremo giudice di legittimità
ad essa affidato dalla stessa Costituzione" (Corte costituzionale, sentenza
294/1995) e dalla rilevanza costituzionale ex art. 111, comma 7, Cost. della
funzione di nomofilachia, prevista dall'art. 65 ordinamento giudiziario, e del
peculiare ruolo della Corte di legittimità all'interno dell'ordinamento
processuale (Corte costituzionale, sentenza 21/1982).
Deve sottolinearsi, altresì, che l'autonomia riconosciuta dalla Costituzione ad
ogni giudice non riguarda soltanto le operazioni ermeneutiche aventi ad oggetto
leggi ordinarie ed atti con forza di legge, ma si estende al contenuto e alla
portata delle disposizioni costituzionali, che si inseriscono nell'ordinamento
come norme-principio, conformando i lineamenti del sistema e ponendosi quali
imprescindibili parametri di riferimento nell'interpretazione delle disposizioni
che lo costituiscono.
A quest'ultimo riguardo, la Corte costituzionale ha propugnato da sempre la
teoria della interpretazione "adeguatrice", sollecitando costantemente
i giudici ad esercitare il potere-dovere di ricostruire il contenuto e la
portata delle disposizioni di legge ordinaria alla stregua dei principi della
Costituzione, in modo da attribuire alle disposizioni, tra i plurimi significati
astrattamente possibili, quello che non sia in contrasto con i valori
costituzionali.
L'interpretazione adeguatrice corrisponde ad un preciso ed ineludibile dovere
del giudice, il quale è tenuto a ricavare dalle disposizioni interpretate,
tutte le volte che ciò sia possibile, norme compatibili con la Costituzione.
Invero, il Giudice delle leggi ha precisato, a più riprese, che «in linea di
principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è
possibile dame interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»
(sentenza 356/1966), specificando che i giudici non possono abdicare
all'interpretazione adeguatrice (ordinanza 451/1994) e che, nell'adempimento del
compito di interpretare le norme di cui devono fare applicazione, «di fronte a
più possibili interpretazioni di un sistema normativo, essi sono tenuti a
scegliere quella che risulti conforme a Costituzione» (ordinanza 121/1994).
Siffatto consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale è stato
inteso in dottrina, non a torto, come una pressante sollecitazione rivolta dalla
Corte costituzionale ai giudici per l'assunzione di maggiori poteri e
responsabilità nell'esercizio del controllo di costituzionalità delle leggi e
come accentuazione dei caratteri "diffusi" di tale sindacato, alla cui
stregua i giudici sono investiti di un ruolo di "comprimario".
Tali considerazioni meritano di essere condivise, purché non si dimentichi che
l'interpretazione adeguatrice dei giudici ha possibilità di esplicazione
soltanto quando una disposizione abbia carattere "polisenso" e da essa
sia enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una norma
compatibile con la Costituzione attraverso l'impiego dei canoni ermeneutici
prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale: di
talché, nell'impossibilità di conformare la norma in termini non
incostituzionali, il giudice non può disapplicarla, ma deve rimettere la
questione di legittimità costituzionale al vaglio del Giudice delle leggi.
4. Le situazioni di conflitto interpretativo, potenzialmente insite nella
presenza nell'ordinamento costituzionale di concorrenti ed autonome sfere di
potestà giurisdizionali, sono emerse rispetto alle decisioni interpretative di
rigetto, soprattutto quando queste hanno assunto valore "correttivo" o
"manipolativo".
Un tale tipo di decisioni - adottate, in alcuni casi, non con la forma della
sentenza ma con quella dell'ordinanza - sono contraddistinte da una motivazione
nella quale si chiarisce che la dichiarazione di infondatezza della questione di
legittimità costituzionale, contenuta nel dispositivo, è condizionata
all'attribuzione di un ceno significato alla disposizione di legge impugnata,
nel senso che, pur riconoscendo che, se fosse interpretata conformemente a
quanto ritenuto dal giudice rimettente, essa sarebbe incostituzionale, la Corte
decide di non procedere alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, ma
compie un'interpretazione alternativa traendo dalla disposizione una norma
diversa, giudicata conforme, o la sola conforme, ai principi della Carta
fondamentale. In altri termini, la contrarietà della legge alla Costituzione è
affermata non in assoluto ma in quanto alla disposizione si dia un certo
significato, ossia nei sensi e nei modi chiariti nella motivazione.
Il determinante rapporto di dipendenza della decisione di rigetto dalla scelta
di una determinata interpretazione della norma denunciata è reso palese
dall'inserimento nel dispositivo delle parole "nei sensi di cui in
motivazione", formula con la quale si intende esprimere il carattere
condizionale della sentenza e la portata di "doppia pronuncia" che
essa assume. E il rapporto anzidetto è cosi pregnante che quella specifica
interpretazione della disposizione di legge non costituisce semplicemente motivo
della decisione, ma acquista rilevanza esterna entrando a far parte del deciso,
come suo elemento costitutivo.
Si è osservato che le decisioni interpretative rappresentano normalmente una
forma di attività della Corte qualificabile come "maieutica", per la
ragione che tendono ad enucleare principi e regole che l'ordinamento già
contiene e non ad introdurvene di nuovi. Esse sono state considerate «espressione
del principio di unità sistematica dell'ordinamento, che richiede che alle
leggi sia attribuito il significato che ne consenta l'armonica integrazione con
i contenuti costituzionali, in funzione adeguatrice delle prime ai secondi»:
con la conseguenza che soltanto l'impossibilità di operare un tale adeguamento
rende inevitabile la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma
impugnata.
Le decisioni in esame costituiscono, perciò, una modalità della tecnica del
sindacato di costituzionalità, attraverso la quale il Giudice delle leggi,
nella sua insindacabile discrezionalità, ritiene preferibile reinterpretare la
norma impugnata, plasmandone il contenuto in termini compatibili con la Carta
costituzionale ed evitando, cosi, che una dichiarazione di incostituzionalità
produca una lacuna nell'ordinamento.
5. È unanime in dottrina l'opinione che esclude il valore vincolante delle
decisioni interpretative di rigetto, in quanto sprovviste dell'efficacia erga
omnes attribuita dall'art. 136, comma 1, Cost. alle sentenze che dichiarano
l'illegittimità costituzionale di una norma di legge. Per rendersi conto
dell'incontrovertibilità dell'affermazione basta osservare che se a dette
decisioni dovessero riconoscersi effetti vincolanti per i giudici, la Corte
costituzionale sarebbe investita di un potere di interpretazione autentica che,
nel sistema vigente, è riservato in via esclusiva al legislatore.
La stessa posizione è stata ripetutamente espressa dalle Sezioni Unite Penali
di questa Corte.
Un primo intervento è segnato dalla sentenza 22/1995, ric. Clarke, con la
quale, sulla scia del concorde orientamento della dottrina e della
giurisprudenza penale e civile, è stato ritenuto che quelle decisioni sono
prive dell'efficacia, erga omnes propria delle sentenze con le quali viene
dichiarata l'incostituzionalità di una disposizione di legge, ai sensi degli
artt. 136 Cost. e 30 della l. 87/1953, di talché è innegabile che le predette
pronunce hanno valore di mero precedente e non vincolano il giudice, al quale è
consentito discostarsi dall'interpretazione proposta dalla Corte costituzionale
e sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale della
identica disposizione di legge. Nella sentenza Clarke è stato precisato, altresì,
che soltanto nel giudizio a quo la sentenza interpretativa produce una
preclusione endoprocessuale derivante «dal carattere incidentale del giudizio
di legittimità costituzionale e dall'imprescindibile nesso di necessaria
pregiudizialità che lo lega al processo principale»: con la conseguenza che la
medesima questione non può essere riproposta nello stesso giudizio e che al
giudice a quo è definitivamente inibita l'applicazione della norma
nell'interpretazione ritenuta incostituzionale (Corte costituzionale, ordinanza
268/1990). Per una precisa esigenza di coerenza interna del sistema, dalla
pronuncia interpretativa scaturisce un "vincolo negativo" ai poteri
interpretativi del giudice che ha sollevato la questione giudicata non fondata,
nel senso che quest'ultimo non può attribuire alla disposizione di legge la
portata esegetica ritenuta incostituzionale dalla Consulta, pur essendogli
consentito di scegliere differenti soluzioni ermeneutiche, che, ancorché non
coincidenti con quelle della sentenza interpretativa di rigetto, non collidano
con norme e principi costituzionali.
Va considerato che la sentenza Clarke è stata emessa proprio nel processo in
cui era insorto l'incidente di costituzionalità conclusosi con la sentenza
interpretativa 470/1991, relativa all'ammissibilità di acquisizioni probatorie
nell'appello conseguente a giudizio abbreviato. Le Sezioni Unite hanno ritenuto,
con quella pronuncia, di condividere la soluzione accolta nella citata decisione
interpretativa, seguendo, però, proprie ed indipendenti linee argomentative,
soprattutto di ordine sistematico.
Tali notazioni valgono a porre in luce un profilo di essenziale importanza:
quello per cui, persino per il giudice a quo, le decisioni interpretative non
producono vincoli, se non quello di carattere negativo che impedisce di
applicare la norma nel significato giudicato incostituzionale. Ne segue che
l'allineamento alla soluzione accolta in tali decisioni postula da parte del
giudice un'autonoma adesione, sì da giustificare l'applicazione della norma
nella portata da essa assunta a seguito dell'intervento correttivo operato dalla
Corte costituzionale.
Le Sezioni Unite intendono riaffermare tali principi, rilevando che tutti i
propri reiterati interventi sono univocamente orientati nel senso
dell'esclusione dell'efficacia vincolante delle sentenze interpretative (cfr.
Cassazione, Sezioni Unite, 15 dicembre 1998, Alagni; 13 luglio 1999, Gallieri;
23 febbraio 2000, D'Amuri).
L'ordinamento vigente non permette, in definitiva, di configurare un limite più
rigido di quello negativo o indiretto testé delineato, tanto più che sarebbe
veramente incoerente ipotizzare nei confronti degli altri giudici
condizionamenti più incisivi di quelli che sorgono a carico del giudice che ha
sollevato l'incidente di costituzionalità.
In conclusione, in risposta al quesito relativo agli effetti delle decisioni
interpretative di rigetto, deve essere enunciato il seguente principio di
diritto: «Le decisioni interpretative di
rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza
di quelle dichiarative dell'illegittimità costituzionale di norme, e pertanto
determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è
stata sollevata la relativa questione. In tutti gli altri casi il giudice
conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di
legge a norma dell'art. 101, comma 2, Cost. purché ne dia una lettura
costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella
decisione interpretativa di rigetto».
6. Le decisioni interpretative di rigetto sono divenute sempre più frequenti
ponendosi quale fattore di impulso delle dinamiche evolutive dell'ordinamento
verso un sempre più completo adeguamento delle leggi alla Costituzione: in tale
direzione la Corte costituzionale è stata seguita dalla giurisprudenza, tant'è
che, in non poche occasioni, anche queste Sezioni Unite Penali hanno fatto
propria l'interpretazione adeguatrice (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 24
gennaio 1996, Panigoni; 17 dicembre 1997, Pm in proc. Schillaci; Sezioni Unite,
23 febbraio 2000, D'Amuri; 30 ottobre 2002, Vottari).
Tuttavia, per preservare l'equilibrio del sistema e per salvaguardare il valore
della certezza del diritto, deve essere ben chiaro che quel tipo di decisioni
richiede, da parte di entrambe le Corti e degli altri giudici, la piena
consapevolezza dei rispettivi ruoli e il "rispetto delle reciproche
attribuzioni", al quale motivatamente si sono richiamate le Sezioni Unite
nell'ordinanza del 15 luglio 2003, D'Agostino. E, non a caso, il presidente
della Corte costituzionale dell'epoca, nell'illustrare l'attività svolta dalla
Corte nell'anno 1999, ha segnalato i rischi insiti nelle decisioni
interpretative di rigetto, le quali possono «far assumere alla Corte una
funzione nomofilattica che non le appartiene».
Il meccanismo teso a prevenire contrasti interpretativi va identificato,
anzitutto, nella collaudata dottrina del "diritto vivente", applicata
dalla Corte costituzionale nei casi nei quali l'effettività e la stabilità
dell'interpretazione giurisprudenziale sono tali da fare riconoscere che la
norma vive ormai nell'ordinamento in modo cosi radicato che è difficilmente
ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore o di
questa Corte" (sentenza 350/1997). In presenza di un diritto vivente, pur
potendo attribuire alla disposizione impugnata una diversa dimensione normativa,
in varie occasioni il Giudice delle leggi, nell'esercizio della propria
insindacabile discrezionalità, ha ritenuto preferibile adottare una pronuncia
di incostituzionalità anziché una decisione interpretativa di infondatezza,
che avrebbe potuto non essere condivisa dai giudici a causa del rifiuto di
abbandonare interpretazioni giurisprudenziali consolidate. È utile precisare
che, in tali situazioni, la Corte costituzionale ha seguito non soltanto il
criterio quantitativo legato alla costanza e all'uniformità della
giurisprudenza, ma ha tenuto conto anche della posizione del giudice da cui
promana la scelta interpretativa, privilegiando gli orientamenti della
giurisprudenza della Corte di cassazione, titolare della funzione di
nomofilachia (cfr. sentenza 110/1995 e 355/1996), ed attribuendo particolare
valenza alle decisioni delle Sezioni Unite, che hanno il compito di risolvere
contrasti interni alla giurisprudenza di legittimità e di suggellare la
prevalenza di una soluzione interpretativa sulle altre (sentenza 260/1992,
292/1985, 34/1977).
L'allineamento al diritto vivente è il risultato di una scelta di politica
giudiziaria rimessa al prudente apprezzamento della stessa Corte costituzionale
e corrisponde ad una linea di condotta che è stata qualificata in dottrina, di
volta in volta, come "atteggiamento di self restraint",
"compromesso", "autolimite" o "una sorta di inespresso
patto istituzionale".
Un ulteriore mezzo di prevenzione dei conflitti derivanti dalle decisioni
interpretative di rigetto è rappresentato dalla via indicata dall'orientamento
della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui - conformemente ad una
risalente e tuttora accreditata dottrina - i giudici, pur non essendo vincolati
da decisioni di questo tipo, non possono, però, applicare la norma nel
significato ritenuto contrario alla Costituzione, sicché, in caso di dissenso,
sono tenuti a ricercare una diversa soluzione ermeneutica o, se ciò sia
impossibile, a sollevare incidente di costituzionalità, rimettendo nuovamente
la questione alla Corte. Quest'ultima, poi, dovrà autonomamente scegliere se
ribadire la precedente interpretazione o, re melius perpensa, modificarne la
portata, ovvero dichiarare l'incostituzionalità della norma.
Proprio a tale regola di comportamento, più volte affermata da questa Corte, si
sono attenute le Sezioni Unite allorché, con l'ordinanza D'Agostino, hanno
ritenuto di dovere sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art.
303, comma 2, c.p.p., al fine di trovare una forma di composizione del conflitto
che investe una materia tanto delicata come quella relativa alla libertà
personale dell'imputato.
7. Le tappe della lunga vicenda iniziata con la sentenza interpretativa
292/1998, ripercorse attraverso l'esposizione dei passaggi più significativi
(v. par. 2.), rendono evidente che in questo caso non ha funzionato nessuno dei
meccanismi idonei a prevenire o a superare il contrasto insorto sulla
disposizione di cui all'art. 304, comma 6, c.p.p., intesa quale regola
risolutrice del problema del calcolo del doppio del termine di fase nell'ipotesi
di regressione del procedimento.
Anzitutto, è rimasto completamente inoperante il criterio legato all'osservanza
del diritto vivente, sebbene fosse ben prevedibile la resistenza dei giudici ad
accogliere un'interpretazione totalmente innovativa, asimmetrica, rispetto ad
uno ius receptum saldamente radicato sull'uniforme giurisprudenza, di legittimità
e di merito, e sulle posizioni unanimi della dottrina, entrambe concordi nel
riconoscere che l'art. 303, comma 2, c.p.p., configura, ai fini del computo dei
termini della custodia cautelare, ciascuna fase o ciascun grado come segmento
autonomo ed isolato del procedimento, indipendente l'uno dall'altro.
In tale contesto, del tutto rispondente alla struttura del vigente sistema
normativo delle misure cautelari personali, le Sezioni Unite hanno accolto, con
la sentenza Musitano, le linee della decisione 292/1998 nell'unica accezione
interpretativa conseguibile dal giudice con l'uso degli strumenti letterali,
logici e sistematici a lui consentiti dall'ordinamento. E, dunque, si è dovuto
necessariamente ricostruire la portata della sentenza interpretativa - compito,
questo, spettante alla Corte di legittimità, come a ciascun giudice (Corte
costituzionale, sentenza 40/1979) - nel senso che il coordinamento degli artt.
304, comma 6, e 303, comma 2, del codice porta univocamente a ritenere che, per
il calcolo del doppio dei termini di fase, siano cumulabili esclusivamente le
fasi e i gradi omogenei, per la puntuale ragione che soltanto questi
rappresentano segmenti processuali avvinti da una relazione di corrispondenza,
di omogeneità e di successione funzionale, di talché, rispetto alla
disposizione ex art. 303, comma 2, il grado successivo può essere considerato
come ripristino del primo.
Le ragioni della resistenza di questa Corte e dei giudici di merito ad aderire
alla decisione interpretativa, nelle sue implicazioni estreme, risaltano
inequivocamente dalle innumerevoli questioni di legittimità costituzionale
aventi ad oggetto proprio quest'ultima disposizione, giudicata come invalicabile
norma di sbarramento che preclude il cumulo indiscriminato di fasi eterogenee,
antecedenti, successive ed intermedie.
Il contrasto è divenuto ancora più netto a seguito dell'ordinanza 529/2000,
con la quale la Corte costituzionale ha reso esplicito, per la prima volta, che
il calcolo del termine massimo di cui all'art. 304, comma 6, non può essere
limitato ai soli periodi di custodia cautelare subiti dall'imputato in fasi
omogenee, come, invece, era stato ritenuto dalla Corte di cassazione a Sezioni
Unite. Con tale ordinanza, dopo avere precisato che l'effettiva portata della
soluzione interpretativa avrebbe dovuto ricavarsi dall'esposizione dei fatti
contenuta nella sentenza 292/1998, il Giudice delle leggi ha ribadito che la
propria interpretazione è costituzionalmente obbligata, perché la sola
coerente con l'art. 13 Cost. E al richiamo a tale particolare valore
interpretativo si riduce la motivazione di tutte le successive ordinanze di
inammissibilità.
Orbene, considerato che il riferimento alla parte narrativa della decisione
interpretativa rappresenta un argomento non trascurabile, ma sicuramente di peso
non decisivo, va rilevato che l'ordinanza 529/2000 ha inteso operare una sorta
di interpretazione autentica della sentenza 292/1998, dimenticando, cosi, che «siffatto
compito non spetta alla Corte, tra i cui provvedimenti necessariamente tipici
non si annovera né può annoverarsi l'accertamento del contenuto di precedenti
sue sentenze, una sorta cioè di provvedimento di secondo grado, del quale
oggetto immediato non è la disposizione o il gruppo di norme impugnati, ma
altra sua sentenza» (Corte costituzionale, sentenza 40/1979).
In ogni caso, di fronte alla laconica perentorietà dei dicta contenuti nelle
decisioni succedutesi sugli artt. 304, comma 6, e 303, comma 2, c.p.p., potrebbe
sembrare non ingiustificato pensare che la Corte costituzionale abbia ritenuto
la propria interpretazione assolutamente vincolante, quasi che ai giudici non
spetti altro compito che quello di adeguarsi alla soluzione additata come
l'unica compatibile con l'art. 13 Cost. Che una simile notazione sia non del
tutto implausibile è confermato, del resto, dal fatto che le predette ordinanze
di inammissibilità appaiono contrassegnate da assiomatica autoreferenzialità,
distinguendosi per il rifiuto del confronto dialettico e per il diniego di
valutare il merito degli argomenti sviluppati nelle ordinanze di rimessione per
dimostrare l'impraticabilità interpretativa della soluzione favorevole al
cumulo indiscriminato di tutte le fasi.
Ma se le decisioni interpretative di rigetto non hanno efficacia erga omnes e
non vincolano i giudici, deve necessariamente concludersi che
all'interpretazione prescelta dalla Corte costituzionale può attribuirsi
soltanto il valore proprio di un precedente autorevole, sempreché, ovviamente,
questo sia sorretto da argomentazioni persuasive, tali da indurre i giudici,
nell'esercizio delle loro autonome funzioni, a condividerlo e a farlo proprio.
In definitiva, non basta che il Giudice delle leggi definisca una certa
interpretazione come costituzionalmente obbligata e la sola compatibile con le
norme della Costituzione perché questa possa imporsi all'osservanza dei
giudici, essendo questi tenuti autonomamente a verificare, con l'uso di tutti
gli strumenti ermeneutici dei quali dispongono, se la norma possa realmente
assumere quel significato e quella portata. E, qualora le premesse ermeneutiche
della soluzione proclamata costituzionalmente obbligata travalichino i limiti
dell'interpretazione letterale-logico-sistematica, i giudici hanno il dovere di
non attenersi a quella soluzione, per la decisiva ragione che, in caso
contrario, disapplicherebbero una norma vigente e arrecherebbero un vulnus ai
principi di legalità e di soggezione alla legge.
8. Le considerazioni testé svolte riflettono pienamente le linee giustificative
della scelta compiuta da queste Sezioni Unite con la sentenza 19 gennaio 2000,
ric. Musitano, e con l'ordinanza 10 luglio 2002, ric. D'Agostino, e, nel
contempo, danno pienamente conto delle ragioni per le quali la giurisprudenza di
legittimità pressoché unanime non ha condiviso le posizioni espresse dalla
Corte costituzionale, non già rispetto al punto concernente il ruolo da
attribuire all'art. 304, comma 6, c.p.p. quale disposizione di chiusura o di
garanzia (che è stato, anzi, immediatamente condiviso e recepito), ma con
specifico riguardo al problema delle modalità di computo del doppio del termine
di fase nell'ipotesi di regressione del procedimento.
Escludere che questo termine possa risultare dalla somma delle soli fase
omogenee e sostenere che in esso debbano cumularsi tutti i periodi di custodia
cautelare sofferti in fasi diverse (antecedenti, intermedie e successive)
equivale, da un canto, ad eliminare dall'ordinamento la disposizione dell'art.
303, comma 2, che è uno dei cardini principali della disciplina delle misure
cautelari personali fondata sull'autonomia delle fasi, e, dall'altro, significa
sconvolgere l'assetto complessivo dell'impianto codicistico che non conosce
altra distinzione che quella tra termini di fase e termini complessi:vi di
durata. L'orientamento del Giudice delle leggi, favorevole alla somma
indiscriminata di fasi non omogenee, introduce un termine "interfasico"
o "plurifasico" che ingloba, in forma anomala ed ibrida, segmenti
custodiali propri di fasi eterogenee, in tal modo realizzando un'operazione
manipolatrice della normativa, il cui reale significato consiste nella piena
cancellazione dell'art. 303, comma 2, senza un'espressa declaratoria di
illegittimità costituzionale, e nella radicale riperimetrazione del sistema
vigente in materia di termini della custodia cautelare.
Con queste osservazioni le Sezioni Unite non intendono affatto sindacare il modo
in cui la Corte costituzionale ha esercitato le proprie attribuzioni, ma
intendono, invece, semplicemente chiarire che, in mancanza di una dichiarazione
di incostituzionalità, la soluzione favorevole al cumulo di fasi non omogenee
non può essere raggiunta con gli strumenti ermeneutici ai quali il giudice è
vincolato dalla legge, giacché l'uso di questi strumenti non permette di
giustificare la totale disapplicazione dell'art. 303, comma 2, né,
simmetricamente, può fare attribuire all'art. 304, comma 6, una capacità
espansiva che - fino a quando resta vigente la prima delle disposizioni indicate
- possa travalicare i limiti che segnano i risultati massimi conseguibili con
l'interpretazione logica e sistematica.
A conferma della persistente vigenza dell'art. 303, comma 2, è opportuno
rilevare che, nell'ordinanza D'Agostino del 10 luglio 2002, le Sezioni Unite
hanno segnalato che le recenti modifiche normative dell'art. 303 c.p.p.,
intervenute con le leggi 144/2000, e 4/2001, di conversione del d.l. 341/2000,
rivelano la voluntas legis di mantenere intatto il dettato della predetta
disposizione, considerato come regola tuttora viva ed operante. Infatti, con la
l. 4/2001 è stato inserito nel primo comma dell'art. 303 il numero 3-bis,
riguardante il termine di durata della fase dibattimentale, stabilendo che, ove
si proceda per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera a), i termini di
cui ai numeri 1), 2) e 3) sono aumentati fino a sei mesi e che tale termine è
imputato a quello della fase precedente ove non completamente utilizzato ovvero
ai termini. di cui alla lettera d) per la parte eventualmente residua, che
devono essere sono proporzionalmente ridotti. Se si considera che, ammettendo
una limitata interconnessione tra fasi diverse e prescrivendo in ogni caso il
recupero, il numero 3-bis del primo comma dell'art. 303 ha indubbiamente valore
eccezionale ed è motivato dall'esigenza di evitare scarcerazioni in relazione a
processi per reati di particolare gravità, non può non riconoscersi che la
nuova disciplina, in quanto di portata eccezionale, è confermativa della regola
generale dell'autonomia delle fasi processuali, suscettibile di deroghe soltanto
nei casi stabiliti dalla legge. Aggiungasi che l'art. 8, comma 3, della l.
4/2001 dispone che "si applicano le disposizioni del comma 2 dell'art. 303
del codice di procedura penale" in caso di revoca della richiesta di
giudizio abbreviato per i processi in corso e, dunque, equipara l'ipotesi della
trasformazione del rito a quella di regressione o di rinvio del procedimento.
9. Con la determinazione delle modalità di computo del termine ex art. 304,
comma 6, c.p.p. limitata al cumulo delle fasi omogenee, le Sezioni Unite non
hanno fatto altro che riaffermare il primato della legge, da cui discende che il
giudice, quando non gli sia consentito dalle regole del metodo interpretativo,
non può esorbitare dai limiti connaturati all'esercizio della giurisdizione
(art. 101, comma 2, Cost.), né può disapplicare, attraverso operazioni
adeguatrici o manipolatrici, una disposizione tuttora vigente, neppure in nome
di una più completa realizzazione dei principi e dei valori della Carta
fondamentale, essendo riservato tale compito alla Corte costituzionale mediante
l'impiego degli appropriati poteri dei quali questa dispone.
L'interpretazione accolta dalla giurisprudenza di questa Corte non trova
ostacolo, peraltro, nel limite negativo, o indiretto, che impedisce al giudice
di applicare la norma nel significato ritenuto incostituzionale dalla sentenza
292/1998, perché il risultato ermeneutico, senza sconvolgere la razionalità e
l'equilibrio del sistema, appare adeguato ai valori espressi dagli artt. 3 e 13
Cost. Infatti, la tesi del cumulo delle fasi omogenee permette di sommare, nel
rispetto della natura monofasica o endofasica dei termini, anche la durata delle
sospensioni o delle proroghe dei termini di custodia cautelare verificatesi
nella fase in cui il procedimento è regredito: risultato, questo, indubbiamente
inibito dalla disposizione di cui all'art. 303, comma 2, c.p.p., nella portata
che ad essa era pacificamente attribuita prima dell'adozione
dell'interpretazione adeguatrice.
Riguardo al riconosciuto ampliamento della tutela della libertà personale è
opportuno rilevare che il periodo di detenzione trascorso nella fase intermedia,
pur non essendo cumulabile a quello delle fasi omogenee a cagione
dell'impossibilità di creare un termine plurifasico o interfasico, non resta
definitivamente perduto, in quanto esso. dovrà essere calcolato allorquando il
procedimento sia tornato alla fase corrispondente. Il punto è stato superato
dalla Corte costituzionale, nell'ordinanza 243/2003, per il motivo che si
tratterebbe di una sorta di "credito di libertà" spendibile nelle
eventuali fasi successive. L'argomento, però, è tutt'altro che irrilevante,
tant'è che nella vicenda cautelare relativa al ricorrente Pezzella
l'applicazione del principio del computo delle fasi omogenee fa ritenere che, ai
fini del termine ex art. 304, comma 6, debba essere sommata alla fase
dibattimentale in corso la durata del precedente dibattimento a conclusione del
quale è stato disposto il regresso, contrariamente all'opinione accolta
nell'ordinanza impugnata emessa dal Tribunale della libertà, che ha seguito
integralmente le linee della sentenza interpretativa 292/1998 e ha fatto
decorrere il termine finale di fase dalla data del secondo decreto che ha
disposto il giudizio. Con la conseguenza che, a volere applicare i principi
enunciati in detta decisione interpretativa, la scadenza del termine ex art.
304, comma 6, avverrebbe in data 17 ottobre 2004, mentre con il criterio del
cumulo delle fasi omogenee lo stesso termine scade il 12 giugno 2004. Risultano,
con ciò, confermate le osservazioni contenute nell'ordinanza D'Agostino, nella
quale era stato posto in luce che il sistema di calcolo propugnato dalla Corte
costituzionale non rappresenta in realtà, sempre e comunque, un vantaggio per
l'imputato in stato di custodia cautelare, né corrisponde, quindi, all'unica
soluzione costituzionalmente obbligata.
Alla luce di tutti i precedenti rilievi, considerato altresì che la Corte
costituzionale ha più volte rifiutato di dichiarare l'illegittimità
costituzionale dell'art. 303, comma 2, e che, perciò, appare superfluo
promuovere un ennesimo incidente di costituzionalità, le Sezioni Unite
ritengono di risolvere la questione sottoposta a scrutinio dall'ordinanza di
rimessione enunciando il seguente principio di diritto: «In caso di regresso
del procedimento, ai fini del computo del doppio del termine di fase e del
conseguente diritto alla scarcerazione dell'imputato detenuto, si deve tenere
conto anche dei periodi di detenzione imputabili ad altra fase o grado del
procedimento medesimo, limitatamente ai periodi riferibili a fasi o gradi
omogenei, secondo il combinato disposto degli artt. 303, comma 2, e 304, comma
6, c.p.p.».
10. In applicazione di tale principio, il ricorso deve essere rigettato perché
destituito di fondamento.
Invero, tenuto conto delle specifiche vicende del procedimento esposte nella
parte narrativa, va riconosciuto che, per accertare la maturazione del termine
finale di fase previsto dall'art. 304, comma 6, deve fissarsi come data di
decorrenza quella del primo decreto di rinvio a giudizio (9 novembre 2000) e
calcolarsi la durata del primo dibattimento fino alla dichiarazione di nullità
del predetto decreto (14 marzo 2001), dalla quale è derivata la regressione del
procedimento, per poi sommare al periodo cosi determinato quello del segmento
processuale omogeneo, ossia il periodo della nuova fase dibattimentale, a
partire dalla data del secondo decreto di rinvio a giudizio (17 ottobre 2001)
sino alla presentazione della richiesta di scarcerazione (4 agosto 2003).
Il criterio del cumulo delle fasi omogenee fa escludere, dunque, che nel computo
possa essere compresa anche la fase delle indagini preliminari conseguente al
regresso del procedimento, la cui durata, in applicazione del medesimo
principio, può essere sommata soltanto a quella riferibile alle precedenti
indagini preliminari. Ed in proposito va precisato che una precedente richiesta
di scarcerazione presentata dal Pezzella prima del secondo giudizio è stata già
respinta, dato che il cumulo delle due fasi di indagini preliminari, pur
calcolando il grado intermedio del primo giudizio, non ha oltrepassato il limite
fissato dall'art. 304, comma 6, c.p.p. (v. Cassazione, Sezione sesta, 20 maggio
2003, Pezzella).
In conclusione, poiché nel caso di specie non risulta superato il termine
finale pari a tre anni in relazione al titolo del reato contestato, il ricorso
deve essere rigettato, previa rettifica della motivazione dell'ordinanza
impugnata, nei sensi sopra indicati, a norma dell'art. 619, comma 1, c.p.p. Alla
pronuncia di rigetto del ricorso deve seguire la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
La cancelleria dovrà provvedere all'adempimento prescritto dall'art. 94, comma
1-ter, disp. att. c.p.p.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per l'adempimento di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.