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LA CORTE COSTITUZIONALE ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ( mancato riconoscimento del diritto alla percezione (con decorrenza dalla data di spettanza) degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle somme loro corrisposte a titolo di benefici economici, stipendiali ed accessori, per effetto dell’inquadramento nei loro riguardi  disposto in forza della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato).

   SENTENZA N. 136 ANNO 2001

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori:

- Cesare   RUPERTO Presidente - Fernando SANTOSUOSSO Giudice - MassimoVARI " - Riccardo CHIEPPA" - Gustavo ZAGREBELSKY" - Valerio ONIDA" - Carlo MEZZANOTTE" - Fernanda CONTRI " - Guido NEPPI MODONA " - Piero Alberto CAPOTOSTI " - Annibale             MARINI" - Franco BILE - Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente   S E N T E N Z A

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 26,  commi 4 e 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), promossi con ordinanze emesse il 15 aprile 1999 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 23 febbraio 1999 dal Tribunale amministrativo regionale della Toscana, il 20 e il 14 gennaio 1999 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, il 9 febbraio 1999 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna, il 29 marzo 1999 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, il 27 gennaio 1999 (n. 7 ordinanze) dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche, il 7 aprile 1999 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 27 gennaio 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche, il 21 aprile 1999 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 9 marzo 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, il 7 aprile 1999 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 23 febbraio 1999 dal Consiglio di Stato, il 21 maggio 1999 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, l'8 luglio 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, il 14 aprile 1999 (n. 2 ordinanze) dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 24 e il 10 febbraio 2000 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, il 9 marzo 2000 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte e il 24 maggio 2000 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, rispettivamente iscritte ai numeri 631, 741, 327, 328, 397, 399, 409, 410, 411, 412, 413, 414, 415, 440, 482, 650, 740 e 747 del registro ordinanze 1999, ed ai numeri 6, 22, 36, 378, 379, 423, 424, 542 e 717 del registro ordinanze 2000, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 23, 29, 35, 37, 39, 46 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1999 e numeri 3, 4, 5, 6, 8, 27, 30, 41 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2000.

      Visti gli atti di costituzione di Cressati Cosima e di Argiolas Franco, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2001 e nella camera di consiglio del 7 febbraio 2001 il Giudice relatore Franco Bile;

      uditi l’avvocato Paolo Montaldo per Cressati Cosima e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

RITENUTO IN FATTO

1. -  Con ordinanza iscritta al n. 631 r.o. del 1999 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, commi 4 e 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), nel corso di un giudizio, instaurato contro il Ministero del tesoro, la Ragioneria generale dello Stato e la Presidenza del Consiglio dei ministri, da un gruppo di dipendenti civili dello Stato  per ottenere - previo annullamento di tutti gli atti presupposti, consequenziali, anteriori e successivi, che, invece, l’avevano negato - il riconoscimento del diritto alla percezione (con decorrenza dalla data di spettanza) degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle somme loro corrisposte a titolo di benefici economici, stipendiali ed accessori, per effetto dell’inquadramento nei loro riguardi  disposto in forza della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato).

L’ordinanza enuncia che, essendo stati i ricorrenti inquadrati in via definitiva con effetto retroattivo a decorrere dal 13 luglio 1981, l’amministrazione aveva corrisposto  i benefici derivanti dall’inquadramento in ritardo, non solo rispetto a quel termine, ma anche rispetto alla data dell’adozione dei decreti di reinquadramento, senza, peraltro, procedere al pagamento degli interessi  e della rivalutazione monetaria <<dalla data di spettanza>>, lasciando poi senza risposta l’istanza per ottenere detto pagamento. Era seguita l’instaurazione del giudizio da parte dei ricorrenti, i quali avevano sostenuto l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione. Ciò premesso, il rimettente, dopo aver dato atto che sulla questione della spettanza degli interessi e della rivalutazione monetaria si era consolidata una giurisprudenza favorevole del giudice amministrativo, assume che l’art. 26, commi 4 e 5, della legge n. 448 del 1998 - di cui ritiene di dover fare applicazione e a cui attribuisce natura di norma retroattiva e di interpretazione autentica (in quanto sancirebbe - a suo dire - che il diritto dei pubblici dipendenti a detti accessori, per effetto del suddetto inquadramento, non sarebbe mai sussistito) - violerebbe:  a) l’art. 3 Cost., in quanto, pur enunciando un intento di interpretazione autentica, avrebbe invece introdotto una nuova disciplina, contrastante con il principio - comune non solo ad ogni credito di lavoro, ma a qualsiasi credito, indipendentemente dalla sua origine - della parità di trattamento dei cittadini relativamente alla corresponsione degli interessi e della rivalutazione sui crediti, senza, peraltro, che la discriminazione sofferta dai pubblici dipendenti sia assistita da una razionale giustificazione, non apparendo ragionevole l’esclusione del diritto alla percezione dei citati accessori sugli emolumenti derivanti dall’inquadramento, poiché essi non si differenzierebbero dagli altri debiti retributivi contratti dall’Amministrazione; b) l’art. 36 Cost., in quanto, per la natura retributiva delle somme su cui vengono negati gli accessori, sarebbe leso il principio di proporzionalità fra retribuzione e prestazione lavorativa; c) l’art. 97 Cost., in quanto si consentirebbe alla pubblica amministrazione di eludere le normali conseguenze del ritardo nella corresponsione degli emolumenti. Circa la rilevanza della questione, il rimettente osserva che, alla stregua della norma denunciata, le domande dei ricorrenti dovrebbero essere respinte. L’ordinanza n. 717 impugna - come, del resto, avevano fatto alcune delle suddette ordinanze (esattamente le nn. 631, 740 e 741 del 1999) - anche il comma 5 del suddetto art. 26.  18. - Con le ordinanze n. 378 e 379 r.o. del 2000 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio - nel corso di giudizi instaurati da taluni dipendenti del Ministero dei beni culturali ed ambientali per ottenere la corresponsione di interessi e rivalutazione monetaria sulle somme già liquidate dopo il reinquadramento nelle qualifiche funzionali ex art. 4 della legge n. 312 del 1980, e talora la stessa corresponsione dei relativi importi in conto capitale oltre che dei suddetti accessori - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 4, della  legge 23 dicembre 1998, n. 448 [erroneamente citata con il n. 449]. Anche tali ordinanze richiamano genericamente la giurisprudenza che ha fatto decorrere il diritto agli accessori dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della deliberazione della Commissione paritetica ex art. 10 della legge n. 312 del 1980, e ritengono l'illegittimità costituzionale della norma impugnata per violazione dell’art. 3, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione. L’art. 3 sarebbe violato, in quanto i crediti per le differenze retributive derivanti dall’inquadramento ex legge n. 312 del 1980, costituenti crediti di lavoro, avrebbero illogicamente un trattamento differenziato da quello di tutti gli altri crediti per tardivo pagamento di retribuzioni, relativi a rapporto di lavoro pubblico e privato. L’art. 36 sarebbe violato perché i suddetti crediti retributivi non sarebbero più proporzionati <<alla quantità e qualità del lavoro svolto stante la impossibilità di una attuale rivalorizzazione dello stesso credito al momento del pagamento delle spettanze arretrate>>. 19. -  Con le ordinanze nn. 423 e 424 r.o. del 2000, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia - nel corso di giudizi intentati da numerosi dipendenti, rispettivamente contro il Ministero del tesoro e contro il Ministero del lavoro, per ottenere l’accertamento e la conseguente condanna delle amministrazioni resistenti al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle somme loro corrisposte, a seguito dell’inquadramento nelle qualifiche funzionali introdotte dalla legge n. 312 del 1980 - dopo avere evocato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, su dette somme, gli interessi e la rivalutazione monetaria sarebbero spettati dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della già citata deliberazione della Commissione paritetica, ed avere rilevato che, per effetto della sopravvenienza dell’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998, i ricorsi dovrebbero essere rigettati - ha reputato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale norma, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione. Peraltro, la motivazione sulla non manifesta infondatezza è in concreto enunciata solo con riguardo alla prima norma (sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento), in quanto i crediti di cui trattasi verrebbero sottoposti ad un trattamento deteriore rispetto a quello previsto per gli altri crediti di lavoro; ed in quanto la norma produrrebbe evidenti ed irragionevoli discriminazioni in danno dei dipendenti le cui pretese siano oggetto di giudizi pendenti all’atto della sua entrata in vigore ed a beneficio dei dipendenti che abbiano ottenuto in precedenza un giudicato favorevole.  20. - Con l’ordinanza n. 542 del 2000, il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte - nel corso di un giudizio intentato da un dipendente contro il Ministero delle finanze e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, per il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria sulle somme corrispostegli in tre soluzioni tra il 1990 ed il 1993, a titolo di maggiorazioni per l’inquadramento ai sensi dell’art. 4 della legge n. 312 del 1980 - dopo avere dato atto dell’orientamento giurisprudenziale in ordine alla decorrenza degli accessori ed enunciato che l’accoglimento del ricorso è tuttavia impedito dall’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998, che, al di là della sua qualificazione formale, non sarebbe interpretativa ed opererebbe per tutte le situazioni non oggetto di decisioni alla data della sua entrata in vigore - ne ha lamentato l’illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 24, 36, 97, 102, 103 e 113 Cost. L’art. 3 è invocato con considerazioni analoghe a quelle delle ordinanze di rimessione nn. 423 e 424. L’art. 36 sarebbe violato per la lesione del <<diritto alla giusta retribuzione, mediante la sostanziale preclusione della operatività dei sistemi di garanzia della realità della retribuzione stessa, dal momento che, senza il riconoscimento della rivalutazione, si determina un ingiustificato depauperamento del contenuto economico dello stesso trattamento retributivo, a fronte del ritardo con cui il medesimo viene materialmente corrisposto>>. Gli artt. 24, 102, 103 e 113 sarebbero, invece, violati, in quanto la norma - applicabile anche ai giudizi pendenti - comporterebbe la vanificazione del diritto di difesa, con un’illegittima interferenza nella sfera del potere giurisdizionale, in particolare del giudice amministrativo. La norma denunciata violerebbe infine l’art. 97, in quanto lederebbe il principio del buon andamento e di imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione, sotto il profilo dell’introduzione di <<una ingiustificata deroga a favore dello Stato al principio fondamentale di liquidazione dei debiti liquidi ed esigibili>>. 21. - Con l’ordinanza n. 717 r.o. del 2000, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio - in tre giudizi riuniti, con i quali alcuni dipendenti del Ministero della giustizia e del Ministero delle finanze avevano chiesto il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione sulle somme loro corrisposte per effetto del reinquadramento ex legge n. 312 del 1980 - ha sollevato, richiamandone espressamente la motivazione, la medesima questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, commi 4 e 5, della legge n. 448 del 1998, già proposta dall’ordinanza n. 631 del 1999.  22. - Nei giudizi di cui alle ordinanze nn. 378, 379, 423, 424, 542 e 717 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, depositando memorie che hanno rinviato alle difese svolte nei giudizi già in precedenza fissati a ruolo, in particolare a quelli introdotti dalle ordinanze nn. 410 e 631 del 1999.  23. - Con riferimento ai giudizi già chiamati a ruolo all’udienza pubblica del 23 maggio 2000 ed alla camera di consiglio del 24 maggio 2000, in esito alle citate ordinanze istruttorie, il Presidente del Consiglio dei ministri ha fatto pervenire documentazione e all’esito tutti i  giudizi sono stati chiamati a ruolo.      24. - Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la parte privata del giudizio di cui all’ordinanza n. 631 del 1999,  ha depositato una memoria, nella quale ha commentato e contestato le emergenze della documentazione fatta pervenire in risposta alle richieste formulate con l’ordinanza istruttoria. Ha, inoltre, richiamato la sentenza n. 459 del 2000 di questa Corte a sostegno dell’invocata natura retributiva degli interessi e della rivalutazione monetaria, per desumerne  che le somme cui si riferisce il giudizio a quo sarebbero assistite <<da una esplicita previsione costituzionale>>, sostenendo, altresì, che non ricorrerebbe, del resto, alcuna condizione che ne giustifichi un seppur parziale sacrificio (attraverso, ad esempio, particolari modalità di pagamento) non essendo credibile che dall’applicazione di un principio generalissimo, che riguarda tutti i lavoratori pubblici e privati, possa derivare danno per la collettività.

Considerato in diritto

1. - Tutte le ordinanze in epigrafe propongono la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, secondo cui <<Le somme corrisposte al personale del comparto ministeri per effetto dell'inquadramento definitivo nelle qualifiche funzionali ai sensi dell'art. 4, ottavo comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312, e le somme liquidate sui trattamenti pensionistici in conseguenza dell'applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1991 non danno luogo ad interessi né a rivalutazione monetaria>>.

La questione è proposta da taluni giudici in relazione alle somme corrisposte al personale del <<comparto ministeri>>, e da altri in relazione a quelle liquidate in base alla sentenza citata.

Fra le ordinanze del primo gruppo, alcune (nn. 631, 740 e 741 del 1999, 6 e 717 del 2000) impugnano anche il comma 5 dell’art. 26, secondo cui <<Fatta salva l'esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della presente legge, le somme corrisposte in difformità da quanto disposto dal comma 4 sono considerate a titolo di acconto sui trattamenti economici e pensionistici in essere e recuperate con i futuri miglioramenti comunque spettanti sui trattamenti stessi>>.

      2. - Le ordinanze relative al <<comparto ministeri>> sono state rese in giudizi intentati da dipendenti per ottenere interessi e rivalutazione su somme tardivamente percepite per inquadramento definitivo, ai sensi della legge n. 312 del 1980. Nei giudizi di cui alle ordinanze nn. 378 e 379 del 2000 si chiedeva anche il pagamento del capitale.  

Quanto ai parametri, l’ordinanza n. 631 del 1999 invoca gli artt. 3, 36 e 97 Cost.; altrettanto fa la n. 717 del 2000, con espressa limitazione al primo comma per gli artt. 36 e 97; le nn. 740 e 741 del 1999 enunciano soltanto l’art. 3; le nn. 440 e 747 del 1999, 378 e 379 del 2000 si riferiscono agli artt. 3, primo comma, e 36, primo comma; le nn. 650 del 1999, 423 e 424 del 2000 ritengono violati gli artt. 3 e 36; la n. 6 del 2000 evoca gli artt.3, 35 e 36; tutte le altre deducono la congiunta violazione degli artt. 3, 24, 36, 97, 102, 103 e 113.

Le motivazioni delle censure - fra le quali quella relativa all'art. 35 Cost. è priva di motivazione - possono così riassumersi:

a) l’art. 3 Cost. è  violato per irragionevole disparità di trattamento in danno dei dipendenti del <<comparto ministeri>>, ravvisata: a1) da tutte le ordinanze, rispetto ad ogni altro creditore per causa di lavoro, cui interessi e rivalutazione competono come conseguenza normale dell’inadempimento; a2) da alcune ordinanze, anche rispetto agli altri dipendenti pubblici, che non subiscono la privazione degli accessori del credito; a3) da altre ordinanze, anche in base alla comparazione fra dipendenti genericamente interessati all’inquadramento e dipendenti che abbiano già ottenuto, prima della norma impugnata, un giudicato sul diritto agli accessori, fatto salvo dal comma 5;

b) l’art. 36 è violato perché il diniego degli accessori, aventi natura retributiva, lede l’integrità e l’effettività della retribuzione;

c) gli artt. 24, 102, 103 e 113 sono  violati perché la norma impugnata, applicabile ai giudizi in corso, vanifica il diritto alla tutela giurisdizionale e interferisce nelle attribuzioni dei giudici;

d) l’art. 97 è violato perché la norma contrasta con il principio di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, consentendo di eludere i normali effetti del ritardo nella corresponsione di emolumenti.

3. - La questione relativa ai trattamenti pensionistici riliquidati a seguito della sentenza di questa Corte n. 1 del 1991 è stata proposta - in riferimento al solo comma 4 del citato art. 26 - da diverse ordinanze,  per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. (nn. 327 e 328 del 1999, 22 del 2000), o degli artt. 3 e 36 (n. 399 del 1999), o soltanto dell’art. 3, primo comma (n. 397 del 1999).

Le motivazioni possono così riassumersi:

a) l’art. 3 Cost. è  violato: a1) secondo alcune ordinanze, per irragionevole discriminazione fra coloro che hanno chiesto in giudizio gli accessori su somme tardivamente corrisposte, a seconda che un giudicato sia o no intervenuto; e anche per irragionevolezza intrinseca, non contribuendo la norma alla <<stabilizzazione ed allo sviluppo del paese>>; a2) secondo altre, per l’irragionevole discriminazione di una categoria di crediti pensionistici rispetto a tutti gli altri; a3) secondo un’ordinanza, anche per la discriminazione fra collocati a riposo prima o dopo il 1° gennaio 1979, poiché, in caso di ritardo, interessi e rivalutazione sono negati solo ai primi;

b) l’art. 24 è violato per il sacrificio della tutela giurisdizionale, in riferimento a giudizi in corso. 4. - Sulla rilevanza della questione concernente il comma 4, le ordinanze assumono - con motivazione non implausibile - la necessità della sua applicazione, dato che nei giudizi si chiedono gli interessi e la rivalutazione che la norma nega. La questione inerente al comma 5 è ammissibile soltanto con riguardo all’ordinanza n. 6 del 2000, poiché in essa si enuncia che le somme dovute per interessi e rivalutazione sono state corrisposte in ottemperanza alla decisione di primo grado appellata avanti al rimettente.  5. - Poiché tutte le ordinanze impugnano il comma 4 dell’art. 26, i giudizi possono essere riuniti.

Nel merito è opportuno distinguere le questioni, relative alle due diverse norme contenute nella disposizione censurata.

 6. - La norma relativa alle <<somme corrisposte al personale del comparto ministeri>> si ricollega alla legge n. 312 del 1980, che ha dato ai dipendenti civili e militari dello Stato (salvo specifiche eccezioni) un nuovo assetto, sostituendo al sistema delle carriere quello delle qualifiche funzionali.

A tal fine essi sono stati prima inquadrati provvisoriamente, dalla stessa legge, nelle nuove qualifiche; e poi - dopo che un’apposita commissione ha individuato i profili professionali compresi in ciascuna qualifica e valutato la corrispondenza fra vecchie carriere e nuovi profili - definitivamente inquadrati, mediante provvedimenti individuali, nelle qualifiche funzionali col corrispondente livello retributivo. 

I rimettenti ritengono, in conformità a giurisprudenza amministrativa consolidata, costituente quindi <<diritto vivente>>: a) che in tema di inquadramento del <<comparto ministeri>> il potere discrezionale dell’amministrazione si è esaurito l’8 novembre 1988, con la pubblicazione della delibera dell’indicata Commissione, onde la natura sostanzialmente ricognitiva dei successivi provvedimenti individuali; b) che in tale data, quindi, sarebbe sorto il credito dei dipendenti per la parte di retribuzione, commisurata a mansioni effettivamente svolte, non percepita per l’inadeguatezza dell’inquadramento provvisorio rivelata da quello definitivo; c) che su tali somme sarebbero dovuti, dalla stessa data al pagamento, interessi e rivalutazione monetaria. L’applicazione di questi principi è però impedita, ad avviso dei rimettenti, dalla norma del citato comma 4 dell’art. 26, secondo cui le somme in esame <<non danno luogo ad interessi né a rivalutazione monetaria>>. 7. - La questione concernente tale norma è fondata.      Alcune ordinanze prospettano la violazione dell’art. 3 Cost., dubitando che la norma possa qualificarsi (come vorrebbe la rubrica dell’art. 26) in termini di interpretazione autentica, con efficacia per ciò solo retroattiva, e la ritengono invece innovativa e retroattiva. La Corte ha però affermato (per tutte, sentenza n. 229 del 1999) che - ai fini del controllo di legittimità costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza - non assume valore decisivo verificare se una norma abbia efficacia retroattiva in quanto di natura realmente interpretativa, ovvero si connoti come innovativa con efficacia retroattiva. E - sulla premessa che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell'ordinamento, non è stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell'art. 25 Cost. in materia penale - ha precisato che, nel rispetto di tale limite, ben può il legislatore porre norme retroattive (interpretative o innovative che siano), purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti. Orbene, la norma del comma 4 - che, in caso di inadempimento di particolari obbligazioni, nega interessi e rivalutazione - è palesemente retroattiva, alla stregua del comma 5: questo infatti - disponendo che, fatti salvi i giudicati, le somme corrisposte (evidentemente prima del sopraggiungere del divieto) sono recuperate sui futuri miglioramenti - assoggetta a ripetizione pagamenti anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina ed esclude così che il comma 4 possa negare gli accessori solo a partire dalla sua entrata in vigore. 7.1. - Di questa disciplina (retroattiva) occorre valutare la conformità al principio di ragionevolezza, posto dall’art. 3 Cost., verificando l’effettività delle denunciate discriminazioni. Dal confronto fra la situazione degli appartenenti al <<comparto ministeri>> e quella degli altri dipendenti delle pubbliche amministrazioni, o (in una prospettiva più ampia) dei lavoratori in genere, emerge come la norma impugnata ponga i primi in una posizione sicuramente deteriore. Infatti il <<personale del comparto ministeri>>, quanto ai crediti per differenze retributive da inquadramento definitivo, è totalmente sottratto alla regola che garantisce a tutti i lavoratori, dipendenti da privati o da pubbliche amministrazioni, in caso di inadempimento di obbligazioni retributive, gli interessi e la rivalutazione monetaria, nella misura più ampia di cui all’art. 429 cod. proc. civ. o, per i crediti maturati dopo il 31 dicembre 1994, in quella più ristretta prevista dall’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994. Ed è indifferente che non sempre risulti dalle ordinanze se i crediti fatti valere abbiano subìto questa successione di disciplina, poiché la norma impugnata esclude radicalmente l’operatività di quella regola. Ma, più in generale, il diniego di interessi e rivalutazione comporta per il personale in esame una posizione deteriore rispetto a qualsiasi altro creditore di somma di danaro, tenuto conto che l’art. 1224 cod. civ. collega all’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie l’effetto normale della corresponsione degli interessi e quello eventuale del risarcimento del maggior danno, nel quale rientra il pregiudizio da perdita di valore della moneta. Questo trattamento sfavorevole è ancor più rilevante alla luce della giurisprudenza della Corte, secondo cui il particolare risalto accordato dalla Costituzione al diritto del lavoratore alla retribuzione (art. 36, comma 1) esige che al credito retributivo si appresti <<una effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti>>, ed in particolare una disciplina privilegiata delle conseguenze dell’inadempimento dell’obbligazione retributiva, con la previsione di <<un meccanismo di riequilibrio del vantaggio patrimoniale indebitamente conseguito dal datore di lavoro attraverso l’inadempimento>> (sentenza n. 459 del 2000), in funzione di <<remora a pratiche ritardatrici del pagamento>>, possibili anche da parte del datore di lavoro pubblico (cfr. sentenza n. 207 del 1994). 7.2. - L’Avvocatura dello Stato sostiene che la norma denunciata non sarebbe irragionevolmente discriminatoria, perché determinata da esigenze di contenimento della spesa pubblica. Tale allegazione è del tutto generica, riducendosi in sostanza a richiamare l’esigenza di tener conto della giurisprudenza amministrativa che, per l’inadempimento dell’obbligazione retributiva da inquadramento, faceva decorrere gli accessori dalla data della deliberazione dell’indicata Commissione e non dai provvedimenti individuali. Non viene minimamente spiegato come siffatto orientamento possa avere giustificato la sottrazione radicale di taluni crediti retributivi - in quanto tali meritevoli, ex art. 36 Cost., di trattamento privilegiato - alla disciplina generale dell’inadempimento prevista non solo per le retribuzioni degli altri dipendenti pubblici e dei lavoratori in genere, ma addirittura per i comuni crediti pecuniari di ogni altro cittadino. Alla rilevata totale genericità del riferimento alle esigenze di bilancio, consegue che la Corte non debba soffermarsi sul se e in quali limiti esse possano eventualmente incidere sui crediti retributivi del settore del lavoro pubblico. 7.3. - Conseguentemente, l’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998 - in quanto prevede che le somme corrisposte al personale del <<comparto ministeri>> per effetto dell’inquadramento definitivo ex art. 4, ottavo comma, della legge n. 312 del 1980, non danno luogo  né ad interessi né a rivalutazione monetaria - deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. Resta assorbito ogni altro profilo di censura. La dichiarazione di illegittimità della norma non incide, naturalmente, sulla determinazione del dies a quo della decorrenza degli accessori, individuato dal <<diritto vivente>> nell’8 novembre 1988. 7.4. - L’accertata illegittimità dell’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998, con riferimento alle somme corrisposte al personale del comparto ministeri, comporta anche l’accoglimento della questione relativa al comma 5, la cui applicazione presuppone la vigenza del  comma 4. 8. - La seconda questione riguarda la norma - di contenuto identico rispetto a quella finora esaminata - dettata dalla disposizione impugnata per i crediti relativi alle somme liquidate sui trattamenti pensionistici, in applicazione della sentenza di questa Corte n. 1 del 1991. Tale sentenza - ritenuto che l'art. 3, primo comma, del decreto-legge 16 settembre 1987, n. 379, convertito in legge 14 novembre 1987, n. 468, aveva irrazionalmente discriminato fra dirigenti dello Stato, concedendo la riliquidazione della pensione solo a quelli collocati a riposo dopo il 1° gennaio 1979 - lo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non disponeva che ai dirigenti collocati a riposo prima di tale data la pensione, a cura dell’amministrazione, fosse riliquidata in base agli stipendi dovuti per effetto di norme sopravvenute. Le ordinanze rilevano che i crediti nascenti da questa decisione hanno natura previdenziale, per cui - senza la soppressione di qualsiasi accessorio disposta dalla norma impugnata, avente efficacia retroattiva - il loro ritardato adempimento sarebbe stato regolato prima dall’art. 429 cod. proc. civ. (applicabile ai crediti previdenziali per effetto della sentenza n. 156 del 1991 di questa Corte), e poi dall’art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991. I crediti in questione infatti - essendo di natura previdenziale e non retributiva - ricadono sotto la tutela dell’art. 38 Cost. e, rispetto ad essi, le esigenze del bilancio pubblico (a carico del quale il sistema previdenziale è in buona parte finanziato) potrebbero, in via di principio, spiegare rilevanza (sentenze numeri 327 del 1999, 417 del 1998, 211, 138 del 1997, 361 del 1996, 320 del 1995). Peraltro, ed è argomento decisivo, la norma in esame non mira affatto a contemperare esigenze di bilancio e tutela di crediti previdenziali, ma si limita ad escludere totalmente, per l’inadempimento di alcuni di essi, ogni prestazione accessoria. 8.2. - La sottrazione dei crediti pensionistici nascenti dalla sentenza n. 1 del 1991 al regime generale delle conseguenze dell’inadempimento si risolve in un trattamento palesemente differenziato rispetto a quello di tutti gli altri crediti, previdenziali e non previdenziali. Tale differenza - una volta esclusa la rilevanza delle esigenze di bilancio - è priva di ragionevolezza La Corte ha altre volte esaminato, in materia previdenziale,   norme analoghe a quella di cui si discute. E, quando ne ha escluso l’incostituzionalità, ha posto in luce le peculiarità della fattispecie, sottolineando (sentenza n. 138 del 1997) come si trattasse di intervento legislativo di carattere costitutivo, imposto da precedente pronuncia che aveva riconosciuto a taluni soggetti la titolarità di un diritto, lasciando però all’apprezzamento discrezionale del legislatore di fissare <<la misura, i modi e i tempi>> della sua realizzazione. Infine, nemmeno ricorre la situazione che, di recente, ha indotto la Corte a ritenere infondata (sentenza n. 310 del 2000) la questione di costituzionalità della disciplina (contenuta peraltro nell’art. 36, comma 1, della stessa legge di cui fa parte la norma impugnata) con cui il legislatore, intervenendo a seguito di precedenti sentenze, ha regolato in ben diverso modo gli accessori sul trattamento pensionistico corrisposto in ritardo, riconoscendo interessi in misura forfettariamente determinata. 9. - E, quindi, l’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., (anche) in quanto prevede che le somme liquidate sui trattamenti pensionistici in applicazione della sentenza della Corte n. 1 del 1991 non danno luogo ad interessi e a rivalutazione monetaria. Restano assorbiti gli altri profili di censura. 10. - Pertanto, entrambe le categorie di crediti considerate dal comma 4 del citato art. 26 rimangono assoggettate - per le conseguenze dell’inadempimento o del ritardato adempimento - alla disciplina normale, correlata alla loro natura (rispettivamente retributiva e previdenziale) anche per quanto riguarda le modificazioni legislative al riguardo intervenute, ove in concreto idonee a regolarle. 11. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 4, della legge n. 448 del 1998, per gli interessi e la rivalutazione sulle somme liquidate in esecuzione della sentenza di questa Corte n. 1 del 1991, comporta - ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - la consequenziale dichiarazione di illegittimità costituzionale del successivo comma 5, non impugnato da alcuna ordinanza relativamente a quanto dispone circa i suddetti accessori. Il comma 5, infatti, concerne le somme corrisposte a titolo di interessi e rivalutazione in difformità dal comma 4 e, come tale, concorre a integrare la disciplina da questo introdotta e non può trovare autonoma applicazione, per cui partecipa dei vizi che di quello hanno determinato la caducazione e ne resta travolto. PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo); dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, nella parte relativa alle somme corrisposte al personale del comparto ministeri; dichiara - ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, nella parte relativa alle somme liquidate in esecuzione  della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1991.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2001.

F.to: Cesare RUPERTO, Presidente Franco BILE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2001. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA

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